Tante storie magiche
Un’isola, un destino – di Emily Pigozzi
Un’isola, un destino
Di Emily Pigozzi
Nel pomeriggio, quando finalmente scendo dalla nave, tutto il blu del mondo sembra essersi dato appuntamento sull’isola di Cefalonia, affogandomi e travolgendomi con il suo splendore.
Il sole caldo penetra nelle mie vene regalandomi un brivido, così in contrasto con il fresco dell’aria condizionata della sala passeggeri del piccolo traghetto bianco. “È stato un lungo viaggio, ma ne è valsa la pena” penso, distendendo le labbra in un sorriso. Per tutta la vita mia madre e mia nonna mi hanno parlato di quest’isola persa nel mare greco, così importante nella storia della nostra famiglia. Eppure loro qui non ci sono mai state. Suona quasi buffo. Solo ora io ho deciso di regalarmi questo viaggio solitario alla ricerca delle mie radici, nell’estate dei miei trentacinque anni. Non che avessi di meglio da fare, del resto.
«Vivi, Arianna. Lasciati andare. La vita è un grande mare azzurro pieno di insidie, vero, ma soprattutto di sorprese. Devi solo deciderti a solcarlo.»
Quante volte nonna Lia mi ha cullata con queste parole. Mi manca moltissimo. Se n’è andata due anni fa, serenamente, a più di novant’anni. La sua è stata una vita semplice e straordinaria assieme, come quella di molte persone che hanno vissuto a lungo, passando attraverso periodi storici drammatici. Rimasta vedova poco dopo il matrimonio con mio nonno, ad appena vent’anni, ha affrontato ogni genere di avversità per crescere la sua unica figlia, mia madre, nel migliore dei modi. L’ha spinta a essere una donna libera e istruita, come lei non aveva potuto essere, ma soprattutto una persona forte, come lo era lei. Io non sono così. Mi sento diversa da loro. Timida, rinunciataria, dall’aria sparuta. Fisicamente somiglio a mio nonno, me l’hanno sempre detto tutti. Quel nonno raccontato e divenuto quasi leggenda, morto nel fiore degli anni immolato in una guerra assurda. Mi hanno parlato così tanto di nonno Ettore, che portava il nome di un eroe greco e che fatalità del destino è venuto a morire qui, in questa isola meravigliosa e lontana dal mondo. Cefalonia.
Mi incammino per la via principale del paese, lastricata di marmo bianco candido, trascinando la mia piccola valigia. Mi sento stanca e accaldata, ma piena di eccitazione: non mi sembra vero di essere qui. Sono ansiosa di recarmi al memoriale dei caduti italiani, mia meta principale, ma prima decido di registrarmi in hotel e di prendere possesso della stanza che abiterò per una settimana. Lascio i miei documenti alla reception e vengo accompagnata in camera, un piccolo locale bianco con un grande letto color blu oltremare. Mi ci lascio cadere, tirando un lungo sospiro: questo viaggio, per quanto organizzato, è davvero una delle cose più avventurose che abbia mai affrontato in vita mia. Sono abituata alla solitudine, eppure ho scoperto solo venendo qui quanto viaggiare per conto mio, scoprire nuovi luoghi, mi entusiasmi. Venire qui è una promessa che ho fatto alla nonna: si era prefissa tante volte di venire a vedere il luogo dove riposa suo marito, assieme a molti altri soldati italiani, ma per un motivo o per l’altro non è mai riuscita a realizzare questo desiderio.
«In fondo, credo che vedere il luogo dove è morto tuo nonno sia stata la più grande paura della mia vita» mi ha confessato una tarda sera, davanti una grande tazza di tè bollente al miele, suo amoroso rimedio per ogni cosa «Non ho mai avuto paura di niente. Sono andata avanti a testa alta. Però, ho sempre pensato che un giorno o l’altro avrei visto Ettore spuntare dalla strada del paese, con un guizzo di felicità nei suoi meravigliosi occhi azzurri. La verità è che non ho mai accettato fino in fondo il pensiero che non l’avrei più rivisto.» Ed è così, perché l’amato fino all’ultimo giorno. E ora io sono qui, per lei e per me.
“Ora arrivo, nonno” mi dico, dolcemente risoluta.
Esco di nuovo, nella luce del tardo pomeriggio. L’aria calda di agosto mi travolge, avvolgendomi come un manto. Strizzo gli occhi, cercando istintivamente nella borsa i miei occhiali da sole. Ho già un’idea di dove si trovi il memoriale, costruito sul luogo dove furono uccisi e sepolti buona parte dei soldati italiani durante quei terribili giorni della seconda guerra mondiale, ma preferisco chiedere per non correre il rischio di perdermi girando a vuoto per le vie arroventate di Argostoli.
Entro in un piccolo bar, dove prendo una bottiglietta di acqua fresca dal frigorifero. «Quant’è? How much?» domando, rispolverando il mio inglese. Mi fanno segno che ci vogliono cinquanta centesimi.
Pago, e dopo un ennesimo sguardo al mio smartphone e a una copia della foto di nonno Ettore che porto sempre con me ne approfitto per chiedere del memoriale italiano. Il barista, un uomo di mezza età, fa cenno di non capire. Eppure sono convinta di essermi spiegata. «Italian memorial cemetery… world war» ripeto.
Ma il barista fa spallucce, anzi: si volta con aria noncurante e mi regala una visione della sua nuca. Con la coda dell’occhio noto un altro paio di avventori più giovani fissarmi con un’espressione indecifrabile, ma che suona quasi come beffarda. Decisamente sono stata congedata, e la cosa mi lascia piuttosto basita. Uscita dal locale, mi aggiro confusa per le vie della cittadina semideserta, finché mi viene un’idea improvvisa. Poco fa ho notato un piccolo parcheggio di taxi, e così provo a infilarmi in una vecchia auto, allo scopo di farmi portare alla mia meta. Il tassista è seduto al posto di guida, in attesa. «Italian cemetery. Memorial» esclamo di nuovo, ma anche lui sembra non capire. Com’è come non è, dopo dieci minuti di giri a vuoto in una strada secondaria che confina con dune di terra brulla mi ritrovo in una piazza deserta. Il tassista mi chiede pochi euro e poi mi abbandona, oserei dire volentieri, in una zona sconosciuta, blaterando qualcosa con aria ostica, in greco. Sono a dir poco furiosa. Ora però il memoriale voglio trovarlo più che mai: è divenuta questione di principio. Sono arrivata fin qui e non mi lascerò certo intimorire da questa gente!
«Sembra che ce l’abbiano con gli italiani» borbotto, sciorinando una serie di imprecazioni poco femminili e molto poco gentili. E finalmente con l’aiuto del navigatore del cellulare e un buon passo di marcia arrivo a destinazione, nel luogo dove sono stati sepolti i resti dei valorosi soldati della “Divisione Acqui”, morti sotto i colpi di fucile degli alleati tedeschi dopo la resa di Mussolini. Tra di loro, il mio bellissimo nonno poco più che ventitreenne. Non si sente un solo rumore, solo quello del mio respiro mentre mi avvicino. Trovo una fossa di pietra con alcune lapidi in marmo che riportano un gran numero di nomi, e le fisso con una sorta di stupore, per essere infine giunta in questo luogo così simbolico. Tiro fuori dalla borsa le fotografie che ho portato con me, e cerco quella di mio nonno scattata proprio qui a Cefalonia. Mi somiglia molto, me lo dicono tutti fin da quando ero piccola. Eccolo, nella sua divisa, nell’unica foto che spedì a mia nonna. Resto a guardarla assorta e commossa.
«Nonna… eccomi. Vorrei che tu fossi qui con me» mormoro a mezza voce. Mi riscuoto solo per scattare alcune foto: l’ho promesso a mia madre. Mentre frugo nella borsa alla ricerca di un fazzoletto, ho la chiara sensazione di sentirmi osservata. Sussulto, lasciando cadere il pacchetto di fazzolettini di carta che nel frattempo ho trovato. Faccio per raccoglierli, ma qualcuno mi precede. Quando si rialza e mi fissa negli occhi, scopro che è un ragazzo moro, dalla carnagione olivastra e dall’aria molto affascinante. Deve avere più o meno la mia età, penso.
«Prego» mormora, in un italiano venato da un forte accento greco. Sono quasi muta, tanto che a mala pena trovo la voce per ringraziarlo.
«Ti ho vista prima, nel bar» prosegue «qui ad Argostoli non sono troppo ospitali con gli italiani, ma devi capirli. In tanti hanno visto morire i genitori, i nonni… famiglie distrutte. Il ricordo è ancora molto vivo, nonostante siano passati settant’anni» se la cava bene con la lingua, penso ascoltandolo con attenzione.
«Allora eri tu!» esclamo, ricordando le risate dei ragazzi al caffè mentre chiedevo indicazioni.
Lui fa una sorta di smorfia, poi indica la foto che ancora appare sul cellulare che stringo tra le mani. «Tuo nonno? O un parente?»
«Mio nonno. È morto qui, nel quarantatre» dico con un moto di orgoglio. Sembra molto interessato, e fissa con attenzione la vecchia immagine, che appare ancor di più fuori dal tempo in questo pomeriggio di luce in technicolor.
«Senti» esclama convinto, fissandomi negli occhi «posso invitarti a cena? Ti sembrerà strano, ma ho una storia da raccontarti. Possiamo trovarci stasera al ristorante Poseidon, al centro del paese. Mangiamo qualcosa, e ti racconto. Non ho cattive intenzioni» mi rassicura fissandomi con i suoi magnifici occhi neri, che hanno un qualcosa di magnetico. Non ho idea di cosa voglia dirmi, e nonostante la situazione surreale non posso fare a meno di trovarlo paurosamente affascinante, e di desiderare di poter trascorrere del tempo con lui. Così annuisco. In breve, ci accordiamo sull’orario, poi lo straniero dagli occhi neri scompare, come un gatto agile e misterioso, lasciandomi il dubbio di averlo incontrato veramente.
***
Qualche ora dopo sono davanti all’ingresso del Poseidon, con il mio abitino in lino bianco e un mare di domande nel cuore. Mi sono chiesta se quell’incontro non fosse stato frutto della mia immaginazione, magari causato dalla suggestione del luogo in cui mi trovavo.
Il memoriale dei caduti della seconda guerra mondiale. Quasi mi viene un brivido ripensandoci, come succedeva con le storie di paura che mi raccontavano i miei cugini da bambina. L’ora dell’appuntamento è passata, ma il ragazzo non arriva. Sto quasi per rinunciare quando lo vedo, con il passo agile, farsi strada con sicurezza nella via affollata dai vacanzieri. Lo osservo da lontano, con i jeans chiari e la camicia bianca, un sorriso sul volto abbronzato. Mi si avvicina, regalandomi il suo sorriso bianchissimo.
«Scusa, sono in ritardo. Penserai che noi greci non siamo gente seria, vero?» mi canzona.
«Non proprio» ribatto, un po’ in imbarazzo. Non riesco a fare a meno di fissare il suo volto affascinante, il fisico vigoroso e i suoi muscoli torniti e abbronzati, che si intravedono sotto la camicia «Io… non so neppure il tuo nome» dico timidamente. Lui si batte con una mano sulla fronte, in un gesto molto teatrale.
«Che scemo! Nella fretta… piacere, Andreas» mi sorride «e tu sei…»
«Arianna. Mi chiamo Arianna.»
«Bellissimo» mormora lui, guardandomi fisso negli occhi «sto per raccontarti una cosa incredibile, Arianna. Ma prima vieni a cena con me. Insisto.»
Ordina Andreas, per entrambi. Assaggiamo una moussaka squisita, poi carne di agnello con le patate. È tutto saporito, delizioso. La serata è calda ma ventilata, e intanto parliamo del più e del meno, come se questo appuntamento non nascondesse nessun mistero, come se fosse deciso da secoli.
«Come mai parli così bene l’italiano?» non posso evitare di chiedergli.
«Ho studiato arte in Italia. A Milano, all’Accademia di Brera» sorride orgoglioso.
«Sei un artista?»
«Sì. Uno scultore. Si fatica ma… diciamo che riesco a mangiare. È una soddisfazione per me. Prima lavoravo nell’agenzia di viaggi di mia cugina, ma oramai posso mantenermi con il mio lavoro. E tu? Cosa fai in Italia?»
«Lavoro per un’azienda informatica. Sono ingegnere» una smorfia mi sfugge mio malgrado, ma lui la nota subito.
«Che c’è che non va, Arianna?» mi fissa negli occhi, e mentre mi perdo in quello sguardo mi sento come se potessi raccontargli ogni cosa di me. Lasciarmi andare.
«Niente.» sospiro, abbandonando ogni reticenza «è che… mi sento come se la mia vita non avesse senso. Ogni cosa mi appassiona per un po’, ma mi rendo conto che nulla mi colpisce nel profondo. È come se la vera Arianna fosse chiusa in una torre altissima, e nessuno riuscisse a raggiungermi. Li sento, li vedo… ma non sono io. Nessun amore, nessun obiettivo mi appassiona davvero. Anche per questo mi sono decisa a fare questo viaggio che mi ripromettevo da tempo.»
«Nessun amore, Arianna?» mi chiede, bevendo un sorso di vino dal calice di cristallo trasparente.
«Niente di importante. E tu, Andreas?»
«Niente di importante. Ma lo vorrei tanto» ribatte fissandomi con occhi intensi.
Non so com’è, non so se è il vino frizzante o i profumi speziati del cibo, non so se è la meravigliosa notte stellata di Argostoli, quest’isola che ha visto tanto orrore ma che ora è un magnifico angolo di mondo annegato nel blu del mar Egeo. So solo che io e Andreas ci troviamo sempre più vicini, a sussurrarci parole e a giocare con gli sguardi. Ci muoviamo avvinghiati per le vie dell’isola, fino a una piccola casetta bianca, complici e mossi da un desiderio istintivo, quasi animale, che mai avevo provato prima e che adesso mi sembra di non poter più controllare. È come se qualcosa di misterioso mi spingesse verso di lui.
«È il mio studio, ma al momento ci vivo anche» mi spiega aprendo il portoncino chiaro. Vedo con la coda dell’occhio sculture stupende sbucare dalla penombra, come nell’atto di uscire dalla materia. Ma è Andreas che più di tutto colpisce i miei occhi, statua anch’esso, bellissimo e perfetto. Non c’era ragione di non vivere l’emozione che ho provato dal primo istante che l’ho visto. Come fosse ineluttabile.
«Ti ho desiderata subito, Arianna» mi sussurra nell’orecchio, mentre mi spoglia lentamente «tu sei speciale. Credici.»
«Lo dici a tutte?» Domanda il mio ultimo barlume di raziocinio, mentre scivolo sul suo letto bianco.
«No.» Sussurra semplicemente, mentre succhia i miei seni e mi accarezza piano con le sue mani grandi e calde, rese ruvide dall’uso dello scalpello: una ruvidezza che rapisce i miei sensi e mi fa quasi gridare di piacere. Sono di Andreas, come la creta molle che prende vita nelle sue mani. Stanotte, gli permetto di creare una nuova Arianna.
***
Galleggio in un mare di beatitudine, ancora stordita. Fatico a raccapezzarmi su dove sono, ma poi ricordo: il mio arrivo ad Argostoli, il memoriale, la foto di nonno Ettore. E Andreas. Andreas. Scatto a sedere nel letto, chiedendomi se per caso ho sognato. Invece lui è vicino a me, e dorme con un braccio disteso vicino al volto, bello come quello di una statua greca. “Non ho sognato allora?” Mi chiedo confusa “L’ho fatto veramente?” Sono sbalordita da me stessa. L’alba si insinua morbida tra le persiane dello studio di Andreas. Non ero mai stata con un ragazzo sconosciuto, e la cosa mi fa sentire… mi fa sentire bene. Per una volta, è come se mi fossi concessa una favola, una trasgressione. Quest’uomo bellissimo che dorme vicino a me, e che fino a qualche ora fa non conoscevo, mi ha raggiunta nel profondo regalandomi emozioni uniche, come forse nessuna persona al mondo era riuscita a fare. Incredibile, mi dico. Mi fisso nello specchio, pensando di vedermi diversa, ma non è così: sono sempre la stessa. Negli occhi celesti, però, ho una luce nuova, che non avevo mai visto.
«Sei sveglia» Andreas è alle mie spalle, mi massaggia i fianchi e mi bacia dolcemente il collo, facendosi largo tra i miei lunghi capelli bruni. «Dormito bene, bellissima?»
Annuisco, incapace di resistere ai suoi baci appena scoperti. Ha un non so che di travolgente, ma anche di intimo. Come se lo conoscessi da sempre.
«Che ne dici di fare colazione sulla spiaggia?»
«Idea magnifica» rispondo, assaporando il suo tocco «ma non c’era qualcosa che volevi dirmi?» ricordo di colpo.
«Tempo al tempo» sorride, un sorriso dolce e sensuale «ora ti porto al mare.»
Arriviamo alla stupenda spiaggia di Lassi con lo scooter di Andreas. Stretta al suo petto, mi godo la sensazione magica dell’aria e del sole sul mio volto. Mi sento rinascere, tutt’uno con il cielo e con il corpo caldo di questo ragazzo magnifico. Il cuore mi risuona nella testa, battendo all’impazzata. È il momento più incredibile della mia vita. Almeno finora.
«Vieni con me» Andreas mi tende la mano e mi accompagna sulla spiaggia di sabbia chiara, con il magnifico mare greco che si agita davanti a noi. Sono venuta qui per un omaggio al nonno che non ho mai conosciuto e certo non mi sarei immaginata di vivere momenti romantici su bellissime spiagge! Andreas mi fissa negli occhi, come se prendesse le misure prima di parlare. Il mio abitino bianco, oramai spiegazzato, danza nel vento del mattino. Lo guardo curiosa e interrogativa, pronta a farmi condurre nel suo mondo. È strano per una donna diffidente come me, eppure il sentimento che sento si chiama fiducia. Come se dovessi essere esattamente qui, in questo istante.
«Come ti ho vista, ieri» attacca serio, gettando i suoi occhi neri e profondi nei miei «ho avvertito qualcosa. Chiamiamola sensibilità, sesto senso, non lo so. È un dono che ho sempre avuto. So che mi ricordavi tanto qualcuno… e ho avvertito come se noi due fossimo connessi. Quando ti ho sentita chiedere indicazioni sul memoriale italiano delle vittime di guerra, ho deciso di seguirti. È stato un istinto. E quando mi sono avvicinato e ti ho visto fissare quella foto, ho capito. Hai gli stessi occhi di tuo nonno. Ettore.»
Mentre spalanco la bocca dallo stupore, Andreas estrae dalla tasca una fotografia. È il medesimo primo piano di mio nonno con la divisa che ho io, scattata proprio qui a Cefalonia.
«Come ce l’hai?» mormoro con voce strozzata, a fatica. Non mi sarei mai aspettata una cosa simile. Andreas mi porge un’altra fotografia, ingiallita dal tempo. Ritrae un soldato che a uno sguardo più attento rivela essere mio nonno, accanto a una ragazza poco più che adolescente, giovane e bellissima, dai ricci capelli neri, e una bambina più piccola, di circa sette o otto anni, riccia come la maggiore.
«Loro sono mia nonna paterna, Eleni, e mia zia Maria, sua sorella» sorride con sguardo tenero, indicandomele «il mio bisnonno era nella resistenza, ma a un certo punto, quando capì che gli italiani non erano come i tedeschi, iniziò a collaborare con alcuni di loro. C’erano tanti ragazzi a posto, come tuo nonno. Lui e alcuni suoi commilitoni furono destinati ad alloggiare proprio nella proprietà del mio bisnonno, e fecero amicizia con le sue figlie. Lui e Eleni si volevano molto bene, forse… erano innamorati.»
«Mio nonno era sposato!» lo interrompo, basita da quella notizia. L’amore di nonno Ettore e nonna Lia, divisi dalla guerra, è sempre stato leggenda per me, e ora mi sembra assurdo il veder sporcati i ricordi della mia famiglia. «Mia nonna era incinta all’epoca. Di mia madre» quasi mi riscuoto da quell’incanto, creando subito una distanza fra me e Andreas, distanza che lui percepisce subito.
«Non devi rimanerci male. Era la guerra. Ettore era lontano da casa… Eleni, mia nonna, era una creatura dolcissima. Ha sempre amato tuo nonno, e l’ha sempre ricordato. Ma sono certo che tra di loro non ci sia mai stato nulla di fisico. Erano due anime affini, che si sono sostenute in un momento difficile. Dopo l’eccidio da parte dei tedeschi, lei ha cercato il corpo di tuo nonno per giorni» la voce gli si spezza, commosso «Erano stati assieme anche la sera prima che lui venisse ucciso. È quasi impazzita di dispiacere dopo la strage della Divisione Acqui» mi sfiora un braccio. Io provo un moto di rabbia che mi colma di nervosismo, non so se per la triste fine di mio nonno e di tanti giovani come lui, per la guerra che devasta e distrugge, o se perché ho scoperto cose che mai mi sarei aspettata.
«E io cosa dovrei dire alla mia famiglia? A mia madre? Che mentre mia nonna lo aspettava, incinta di sua figlia, lui amoreggiava con una ragazza greca?» chiedo quasi indignata, incurante di ferirlo. Ma Andreas non si scompone. È come se sapesse esattamente come prendermi.
«Dovresti dire loro che tuo nonno non è morto solo. Che tante persone qui gli volevano bene. Mia nonna ha pregato per lui fino al giorno della sua morte, tre anni fa.»
Mi calmo, di colpo. La vita è così grande e imprevedibile. Prendo le misure di quanto è accaduto: tutte queste persone non sono più qui. La storia, impietosa o giusta che fosse, le ha trascinate via con sé, semplici eppure importanti, come lo siamo ognuno di noi. Non è rimasto nulla. Anzi, sì. Loro sono vissuti abbastanza per avere degli eredi che portassero avanti il loro ricordo. E quegli eredi siamo io e Andreas. Qui, insieme.
«Se vuoi, posso presentarti mia zia Maria. Lei c’è ancora, ed è piuttosto arzilla. Si ricorda perfettamente di tuo nonno.»
Annuisco, pensierosa. «Mi farebbe piacere» mormoro.
«Arianna… capisco che tu sia sconvolta. Ma io non lo sono, invece.»
Mi si fa vicino, mi sfiora le labbra con le sue. Non riesco a respingerle. Sono calde, sensuali, e io ne voglio ancora, disperatamente. «È incredibile… Un segno del destino. Che ci siamo ritrovati, proprio noi. Ci pensi? È come se qualcuno l’avesse voluto. E io ci credo. Ci voglio credere che siano stati loro.» Fa un cenno alla foto che ancora tengo in mano, e ancora al cielo azzurro sopra di noi, senza una nuvola.
La leggenda narra che l’isola di Cefalonia sia nata dalla testa di Poseidone.
Noi invece siamo nati già nella fantasia dei nostri nonni, tanti anni fa, e in quelli che di certo erano i loro progetti per il futuro. Chissà di cosa parlavano, cosa sognavano sotto questo stesso cielo.
La vita, infine, ha trionfato sulla guerra. Questa è la loro eredità.
Eravamo destinati a trovarci? Io dico di sì.
«È come un regalo» mormoro, trasognata «sarebbe un peccato non accettarlo.» Lo fisso dritta negli occhi neri, cercando di arrivare in fondo al suo cuore.
Ci sono ancora così tante cose che voglio conoscere di lui, e fargli scoprire di me.
Siamo solo all’inizio.
«Già. Un vero peccato» sorride Andreas. Ci baciamo di nuovo, intensamente, perduti in questo nuovo palpito di vita. In questa isola lontana, che quasi avevo paura di conoscere, ho trovato un dono sorprendente.
Come un destino da compiere.
Un’isola, un destino – Fine
Emily Pigozzi