Tante storie magiche
Un tappeto di stelle di Franca Caiano
Gira il viso verso di me con un sorriso stanco e scuote la testa, è il suo modo di tranquillizzarmi anche se non riesce a trattenere una smorfia avvilita e le trema il mento. Avanza a piccoli passi puntando i piedi. “Non devi più vederlo quello.” Quello, sono io. Un gregario, un portaborracce, un perdente. Mortificato e col volto in fiamme per l’umiliazione la fisso mordendomi il labbro. Vorrei stringerla forte. Trattengo a fatica la collera mentre il padre la strattona per un braccio e lei si scansa ritraendosi inutilmente. Demoralizzato e immobile resto lì fino a quando la sua sagoma è diventata un’immagine sfocata. Poi d’improvviso, percorso da un fremito irrefrenabile, comincio a correre, cadendo e rialzandomi, sporco di terra e con i calzoni strappati. Fino a sfiancarmi. Mi fermo solo nel cortile di casa, piegato in due, col cuore che pulsa a mille e i segni delle unghie nei palmi serrati a pugno. La bicicletta è appoggiata al muro e mi basta guardarla per provare una scossa di adrenalina.
In quel momento prendo la decisione più importante della mia vita.
Mi affacciavo trepidante alle prime gare e Aldo, il mio allenatore, mi dava continui suggerimenti e mi incoraggiava “Forza ragazzo, non mollare.” Non sorrideva mai e non era indulgente, diceva che non poteva permetterselo. Io non perdevo una sola parola di quel che diceva e annuivo abbassando ripetutamente la testa. Lui mi sollevava il mento “Ce la farai, sei di quelli che non mollano. Non devi partire rassegnato, devi ragionare e soprattutto non aver paura di perdere.” Da allora ho attraversato pianure, scalato salite, affrontato gare di resistenza, di velocità, ho sentito l’ebbrezza dell’estrema libertà e mi sono cucito addosso una corazza impenetrabile. Eppure quando vedevo sul volto di mia madre gli inequivocabili segni di un pianto recente mi sentivo in colpa per tutte le preoccupazioni che le causava il mio vagabondare tra rischi e pazzie. “Vai piano” mi sussurrava smarrita e consapevole che invece dovevo andare forte, più forte di tutti. Mio padre le rivolgeva uno sguardo premuroso e se l’abbracciava stretta. Poi con un giro di parole cercava di ridimensionare i suoi timori alterando un po’ la realtà. E mentre lei si copriva il volto, soffocando i singhiozzi, nella mia testa si scatenava la tempesta. Ma quando passavo tra la folla che, con urla e schiamazzi si sbracciava eccitata, riconoscendo i campioni, mi sentivo fiero di essere tra di loro, un qualsiasi portaborracce che inseguiva una favola che poteva diventare storia. Non mollare, mi dicevo. Soffrivo da bestia, sudavo e ansimavo. Dovevo far violenza su me stesso per non crollare e mi ripetevo le parole dell’Aldo il mio allenatore “sei un talento dimostralo, non mi deludere.”
Qualche volta la realtà ci sorprende e si cristallizza indelebile negli occhi e nella mente. Quando succede, qualsiasi paragone diventa superfluo perché non sarà mai più la stessa cosa, avrà un diverso suono, un altro odore, un’altra voce. Persino il battito del cuore si ribellerà alla quotidiana normalità, prigioniero interprete di una parentesi misteriosa eppure così vicina alla concretezza da illudere di essere facilmente raggiunta. Ma dopo il conseguimento del primo traguardo ti prende quella smania ossessiva che ti induce a non smettere mai più. E soprattutto a sognare.
Ma all’improvviso, in un attimo, accade l’imprevedibile.
Sono morto in un giorno d’autunno pedalando in un viale alberato ricoperto da foglie accartocciate, umide e scolorite. Sono partito all’imbrunire, l’ora in cui le ombre si allungano e la giornata volge al termine. È il momento ideale per sgranchirmi un po’ le gambe, mi sono detto, perché c’è poco traffico. Rotolando rovinosamente giù per la scarpata, il primo pensiero è stato per Aldo che mi aveva ammonito di non percorrere quel tratto di strada e mi si ferma il cuore dal panico. Nessuno mi troverà, si sta facendo buio e nessuno, ahimè, mi aspetta.
Lo specchietto dell’Audi si sbriciola contro il manubrio della bici, sento l’osso del polso spezzarsi e tac, si spegne la luce. Ho aperto gli occhi disteso in un campo di grano, gli spuntoni conficcati nella carne. Furiosi e intriganti mi lacerano braccia e gambe e non appagati s’insinuano dappertutto. L’odore acre del sangue impastato col terriccio è nauseabondo e mi offusca la ragione mentre in preda al terrore sprofondo nell’immensità di un abisso buio e gelido. Quando, finalmente, riapro gli occhi scopro su di me l’incanto di un manto di stelle che, nel più assoluto silenzio, compone la sua melodia.
In una diversa situazione avrei contemplato con meraviglia quel cielo color cobalto rischiarato da uno spicchio di luna che in un irridente silenzio mi sorride pacifica.
“Scegli una stella ed esprimi un desiderio” in un sussurro c’è tutta la poesia “fatto” le rispondo “ho scelto la più fulgida, ti somiglia” Francesca ride, scoprendo i piccoli denti.
Sto farneticando, lo so, come so che sto morendo. Immagini e pensieri alterati dallo stato d’animo del momento s’insinuano vacui in un’alternanza di paure e fantasticherie. Sto attraversando l’inferno, eppure dovrei essere abituato a strapparmi l’anima coi denti per questa passione bastarda che mi ha reso libero e schiavo, che mi ha preso a calci nel culo e mi ha permesso di raggiungere alcune tra le più ambite vittorie. Spalanco la bocca per scacciare una nausea sottile che come un cane rabbioso mi serra la gola. Un paio di denti si sono rotti nell’impatto e sono avvolto dal gelo della notte che mi irrigidisce corpo e mente. Annaspo in cerca d’aria. Avrei bisogno di un sorso d’acqua fresca per calmare il fuoco che mi divora. Sento un lieve fruscio sotto la schiena e l’eco lontana di un’ambulanza che, ingannevole, m’induce a sperare.
La mia bici è poco più in là, completamente a pezzi. Penso con disperazione a quanti sacrifici e a quanto sudore mi è costata. Ho lavorato duro per racimolare il denaro necessario, ho fatto il cameriere, il muratore, scaricato frutta e verdura al mercato. Senza mai lamentarmi pur di raggiungere l’obiettivo. É la cosa più preziosa che posseggo, è la mia confidente, la mia amante, la mia forza. Anche il mio orgoglio, praticamente è tutto, tutta la mia vita. Oh, se solo riuscissi a raggiungere il cellulare. Uno sprazzo di lucidità mi fa emergere in superficie e riscopro la suggestione dei ricordi. Un alone di folla mi acclama, grida il mio nome. Tutti i sacrifici in un attimo svaniscono e rimane solo la beata contentezza di aver raggiunto il traguardo per primo. Alzo le braccia e mi lascio travolgere dall’abbraccio di mio padre che ha sempre creduto in me. Mi sento in paradiso. Socchiudo gli occhi tra le ciglia umide e con un groppo in gola bacio la terra.
Una ragazza mi porge dei fiori, mi accarezza con uno sguardo tenero e silenzioso poi sparisce nella folla lasciandomi la delicatezza di un sogno. É Francesca.
“Forza campione” la folla urla il mio nome.
Riesco dolorosamente a sorridere sulla fatalità di questo incidente poi, inevitabilmente, mi sfugge un’imprecazione. Adesso persino i profumi e gli odori sono diventati impercettibili e la mia stessa voce non vuole saperne di uscire come se non fosse più mia, non mi appartenesse, ma decidesse il come e il quando di suo libero arbitrio. Anche il corpo si è separato dalla mente. Muoviti gli dico, fai solo un piccolo movimento, fammi credere che sono ancora vivo. All’improvviso percepisco un gran trambusto. “É qui,” dice qualcuno. “Fate scendere la barella.” Intorno a me infermieri e medici si stanno dando un gran daffare. Li sento parlottare, capisco che mi hanno riconosciuto. Uno spiraglio di contentezza mi dà un fremito, riesco persino a sorridere, ma è solo un attimo. Li guardo smarrito poi chiudo gli occhi.