Tante storie magiche
Mia madre e io. Autunno
Mia madre e io. Autunno Di Gabriella Nardacci
(Brano tratto da un racconto pubblicato nel 2014 nella raccolta UNA STORIA MAGICA)
Il mio mondo ha assunto un colore carminio, caldo e rabbioso. Autunno: l’autunno al mio paese. Di nuovo lo scopro e lo trovo diverso e ogni volta vi torno con rabbia per poi però ripartirne commossa e nostalgica.
Ripercorro sempre automaticamente le tappe della mia vita. Piano piano comincia a piovere.
Prima ancora di arrivare su al paese, l’asfalto sarà abbastanza lucido e rivoli d’acqua scenderanno giù dalle «macere».
Le foglie cominciano a marcire e i loro colori stanno sbiadendo. Così si muore.
Mentre aspiro gli odori della terra che beve avida come avesse sete d’amore, arrivo al mio paese.
Coincidenza o no le nubi se ne vanno e si annuncia una buona giornata domani.
Per fortuna sarà così perché la mia gente avrà ben altro
da fare che oziare accanto al caminetto acceso a spolverare vecchie memorie e a raccontare favole misteriose.
Le camionette arrivavano dalla campagna e, nei rimorchi, cataste di legna.
Eravamo in tanti a caricarle sulle braccia e a portarle negli appositi ripostigli.
Tutti a fare la gara a chi ne portava di più.
Nell’attesa del premio per tanta fatica, ci sedevamo, affaticati e sudati, sui gradini all’interno dei portoni e sentivamo il ritmo del cuore ritornare nella norma. Nonostante questo, continuavamo a farlo per chi ci chiamava in quanto, per noi, quel lavoro era un gioco che non richiedeva né vincitori né vinti e il premio, alla fine, era uguale per tutti.
Mia madre provvedeva già ad agosto per la legna. Diceva a Vitale che non voleva legna di «cero» né quella di «carpino» nero né quella di fico perché non si accendevano facilmente.
Potevano essere buone, però, quelle di quercia, secondo la contrada. Se erano della contrada esposta a sud, erano migliori perché davano più calore. Buone erano anche quelle di «scopiglio» per non parlare poi di quelle di «carpino» bianco.
«Ma…cerca de portamme chelle de lucino, e se so ricci è meglio, e magari puro poco putio…»
Mia madre si trasformava in una vestale già da quando pensava al fuoco.
E mentre Vitale scendeva le scale dopo aver ricevuto l’ordine, mia madre si affacciava e gli diceva ancora: «E gli ciocchi portameli buoni!…»
Vitale sbuffava un po’ ma poi era umile, buono e simpatico e cercava di accontentarle tutte, le donne che gli ordinavano la legna anche se fra quei ciocchi qualcuno di carpino nero e di cero glielo metteva ugualmente…
L’albero di tiglio, sotto casa, comincia a spogliarsi e quasi più nessuno si sofferma sotto di esso. Nella piazza coperta, il paesaggio splendido che si staglia lontano è offuscato dalla nebbia e pare un acquerello, che invita al romanticismo.
Insieme alla legna, arrivava anche il tempo della vendemmia. A passeggiare per i vicoli, si sentiva sempre quell’odore di mosto che già inebriava la mente e di cui da piccoli nelle cantine sentivamo anche il sapore quando i nonni e i padri ci facevano assaggiare il primo vino spumoso e dolcissimo.
Ricordo ancora adesso la gioia della vendemmia, i canti, i cesti, i giochi di noi bambini, le tavolate e le risate e il sudore e la sporcizia dentro le unghie e l’odore dei tini e le marce dentro di essi a schiacciare gli acini con i piedi…
Si finiva con i vini e si cominciava con le olive.
Noi bambini non riuscivamo mai a stare al passo delle donne, e benché mi rendessi conto di essere una bambina rispetto a loro liberavo la mia mente da possibili e plausibili distrazioni e cercavo di concentrarmi al massimo, o meglio, guidavo l’azione del raccogliere con gli occhi spalancati in modo tale che mani e occhi lavorassero all’unisono. Ma per quanto riuscissi a concentrarmi e a fare musica l’azione, all’improvviso mi calavo in questa in modo tale che la cosa diventava di nuovo gioco e dimenticavo la gara propostami…