Tante storie magiche
La vita di Vera Walsh
La vita di Vera Walsh Di Giulia Dal Mas (Brano tratto da un racconto pubblicato nel 2014 nella raccolta UNA STORIA MAGICA)
Non so se esista la magia, ci ho pensato, a volte, ma non sono mai riuscita a trovare una risposta. Forse si tratta di una di quelle cose che bisogna arrivare a sfiorare per capirle davvero. Sì, deve essere così, e forse, pensandoci bene, è proprio questo che la rende così affascinante, il suo essere sfuggevole. D’altronde, che cosa ne sarebbe di maghe e stregoni se chiunque potesse vedere? Che cosa mai potrebbero inventare fattucchiere e indovini, se ci accorgessimo di poter fare da noi?
Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che tutto, a questo mondo, ha un senso, e per quanto oscuro e ambiguo possa sembrare nulla ne dovrebbe mai essere privato. Perciò credo che in fondo sia meglio così, che la magia rimanga un mistero, uno dei pochi, ormai, a cui è ancora possibile aggrapparsi.
Io sono Vera Walsh e, anche se in pochi, ormai, sembrano ricordarlo, è proprio così che mi chiamo. Vera
Walsh. Lo dico sempre in questo modo, per intero, a chiunque me lo chieda, nome e cognome. Non ho mai capito la necessità delle persone di usare solo l’uno o solo l’altro, come se soltanto uno dei due fosse realmente degno di essere pronunciato, mentre l’altro, quello taciuto, non ne fosse che una misera copia, una sorta di spalla per il vero protagonista, che nessuno ha il tempo o la voglia di nominare. Non è così per me, io non credo che ci siano nomi di serie A e nomi di serie B, esistono solo nomi, minuscoli agglomerati di sillabe che insieme dicono chi siamo. E non importa che sia sdolcinato e lungo, oppure buffo e spigoloso, o magari soltanto sgradevole e sgraziato, un nome è comunque una parte di noi, importante, anche se brutta.
Mi sono chiesta spesso perché mia madre abbia deciso di chiamarmi così, Vera. La signora Walsh era una donna silenziosa, devota, in quasi ogni ricordo la rivedo con il capo chino e le mani conserte, ed è strano, perché da questa mia descrizione si potrebbe quasi pensare che fosse una donna timida e ubbidiente, e in tal caso nulla sarebbe più lontano da ciò che lei era in realtà. Una persona forte, rigida, parsimoniosa, nel denaro come negli affetti. È così che la ricordo, stretta nel suo abito di seta blu d’estate o in quello di lana grigio in inverno, con i lunghi capelli ramati raccolti sulla nuca e un accenno di rosso sulle labbra. Questa era lei, mai un sorriso, mai uno scherzo, forse nemmeno mai un rimprovero. Tutto era stabilito in casa Walsh e, anche se io ero solo una bambina, sapevo che c’erano cose che avrei dovuto fare e altre che, invece, avrei dovuto ben guardarmi anche
dal solo desiderare. Avevo imparato in fretta, ognuno aveva un compito, a questo mondo, e se quello di mia madre era quello di insegnare francese a un gruppo di ragazzine viziate che non appena fuori dalla soglia parevano aver già rimosso ogni più piccola traccia di conoscenza, il mio era quello di studentessa volonterosa. Dovevo studiare, a scuola, la mattina, con i miei compagni e la maestra, e nel pomeriggio con il signor Bianchi, e una pila interminabile di pagine scritte in latino di cui faticavo a capire il significato. Era quello ciò che ci si aspettava da me, una ferrea disciplina e tanto autocontrollo, come se fermarsi a pensare fosse un lusso che non mi era concesso avere.
Credo che sia stato così che sono diventata quella che sono, fredda, distante, incapace di provare la minima emozione o di lasciarsi andare. Eppure in fondo so che non è questo ciò che conta, non è l’immagine che rimanda lo specchio a determinare chi siamo, ma è la luce che vibra nell’anima, quel sottile luccichio che riverbera tra le ciglia e le pupille e descrive ciò che sentiamo. Nel profondo, giù oltre il cuore e lo stomaco, eppure anche vicino, in un posto mitico e indistinguibile che si chiama coscienza. È lì che sta la nostra essenza, l’insieme di pregi e difetti, e a volte sogni e desideri, che rende ogni essere vivente che abbia la grazia, o il dovere, di camminare su questa terra, un pezzo unico, inesplicabile e perfetto.
È quasi assurdo, a questo punto, ritrovarmi a pensare queste cose, eppure è a ciò che sono giunta dopo ottantotto anni di osservazione, del mondo e di me stessa.
La natura è una, unica ma anche molteplice, e per quanto ci si sforzi di relegarla tra stretti canoni morali, in un modo o nell’altro lei riesce sempre a scamparla. A chi sappia guardare, è possibile scorgerla tra le risate di una persona alticcia o tra le parole di un commento maligno, sulle ali trasparenti di una libellula o nel candore ghiacciato della luna, non importa quando si manifesti o che forma decida di assumere, perché qualunque essa sia sarà comunque unico l’effetto che ne deriverà. Stupore, magnificenza e poi timore e angoscia, sono queste le sensazioni che si provano la prima volta che ci si accorge della sua esistenza. Ci si sente grandi e piccoli, tutto nello stesso momento, come se non ci fosse dato che un singolo istante di grandezza di fronte a essa, prima di ricadere inesorabilmente nell’oblio.