Tante storie magiche
La pioggia di Parigi ha il tuo profumo.
“Il sole è nei tuoi occhi
Il calore è nei tuoi capelli
Sembra che ti odino
Perché tu sei lì”.
Wonderful Life, Zucchero
Sono anni che Parigi non è solo una città, ma una tomba di ricordi. È trascorso un anno e io continuo a parlare col passato, aprendo la tomba e tuffandomi come se avessi caldo e non sopportassi più il sudore. Ed io non sento mai caldo. Non sudo mai. Queste sono cose che non riguardano il mio viaggio nel passato. Parigi non è più romantica da quando ci dicemmo addio, Antoine. Ti ricordi quando venni in vacanza qui, e mi fermai per ben tre anni? Ti ricordi che mi piaceva il francese, ma la mia pronuncia faceva pena e tu ridevi ogni volta che conversavamo nel nostro solito bar, dove ci sono stati i momenti migliori. Le risate più forti, le smorfie più divertenti, e gli sguardi più decisi che poi darebbero diventati mani una volta a casa. Vivemmo in un monolocale simile ad una camera, solo che Parigi hanno un’idea molto particolare di spazi e i prezzi sono cari da spavento. Ma a noi bastava quella cucina piccola, il tavolo per due, e il divano letto. Ci bastava la piccola veranda dove quando non pioveva o faceva troppo freddo cenavamo e restavamo a guardare le stelle che cadevano, e la Luna misteriosa come sempre. Un po’ come le persone: ci sono, e piano piano scompaiono. Noi siamo scomparsi, ma va bene così. Non è detto che tutti gli amori siano eterni se vissuti per sempre. Io credo che il ricordo renda qualcosa immortale, perché la vita secca e appassisce. Quindi tutto sommato sono felice, perché ci siamo lasciati in pace senza problemi. Un giorno ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito che non ci legava più nulla. Che noi non eravamo più turisti ma cittadini stanchi di una città ormai troppo caotica. Il nostro amore era diventato una cittadina piena di smog, mi dicesti. Che i nostri baci erano come il cielo grigio e umido. Che bisogna prenderla con filosofia, perché tutto come inizia così ha una fine. Antoine, quando ero una ragazzina che lavorava nel bar del centro avevo creduto ai tuoi baci e ai tuoi capelli scuri come il carbone. Avevo creduto alle tue dita lunghe e alla tua pelle chiara. Avevo creduto alla tua bocca, alla tua lingua, alla tua saliva, ai tuoi denti bianchi. Avevo creduto anche alla tua leggera barba che mi pizzicava la pelle, ma andava bene lo stesso perché era tua. Avevo creduto a tutto, e ora cosa mi rimane? Pagine da riempire per ricordati meglio. Perché devo scrivere per esorcizzare il dolore. Perché io so solo scrivere. Dovrei mandarti a quel paese e riempirti di parole, ma non lo farò. Io voglio ricordare solo il bello di te. Il brutto lo vivo ancora quando sfoglio le nostre foto. Devo dirti ancora tante cose, Antoine. Troppe cose, ma ci siamo allontanati. Non sono mai stata così furba da trattenere un ragazzo, e non ho mai messo in atto le tattiche che le maggior parte delle mie amiche mi consigliavano. Tu mi dovevi amare, non scegliere. Tu mi dovevi volere, non accettare. Tu dovevi arrivare, non essere preso. Perché ho deciso di scriverti, Antoine? Perché il giorno che metterò al mondo una bambina o bambino, Antoine, e vorrei che un giorno come primo romanzo d’amore leggesse la nostra storia ambientata in una Parigi dove il cielo era come i tuoi occhi e la pioggia di Parigi aveva il tuo profumo.
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Arrivai Parigi perché volevo visitarla, volevo vivere qui luoghi di cui mi ero perdutamente innamorata quando andavo al cinema, e la citta in questione era Parigi. Già il suono della sua pronuncia mi sembrava dolce, e la lingua non era fredda come l’inglese, che all’epoca, conoscevo meglio. Tutto mi sembrava così dolce e caratteristico, come le stradine e il quartiere degli artisti a Montmartre, dove avevo preso una camera minuscola, ma mi andava bene perché io volevo vivere la città da turista che sarebbe ritornata nella sua città. Montmartre ha conservato fino agli inizi del ‘900 l’aspetto di un villaggio costellato di mulini e rigogliose vigne e, grazie al suo aspetto bucolico, ha da sempre attirato gli animi più sensibili, amanti dell’arte e del sapere. Tra coloro che l’hanno frequentata basti ricordare Renoir, Picasso, Toulouse-Lautrec e soprattutto Suzanne Valadon e Maurice Utrillo, madre e figlio, che, forse, sono tra coloro che hanno incarnato al meglio lo spirito del quartiere. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la passione che pervadeva le sue strade e infiammava i cuori dei suoi abitanti non si manifestava solo in produzioni artistiche o in folli amori ma in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Il quartiere è una delle maggiori attrazioni turistiche di Parigi, pieno di ristoranti e negozi di souvenir e ha ormai in gran parte perso la sua autenticità. Ci sono, però, ancora delle strade che conservano il fascino di un tempo, come rue Lepic, la lunga strada che sale lungo la collina o la rue St. Vincent. Un posto meraviglioso che ti fa venir voglia di restare, ma hai sempre bisogno di pretesto… E io il pretesto lo trovai: ero seduta al bar e bevevo un succo di frutta alla mela, e il sole era tiepido, e le nuvole ogni tanto giocavano col vento. Un pomeriggio tranquillo, stavo leggendo Julies e Jim in lingua madre per esercitarmi e un po’ perché mi piace come suonano le parole lette in francese. Forse è anche questo che mi ha fregato, oltre ai tuoi occhi un po’ azzurri e un po’ verdi, il modo in cui pronunciavi qualsiasi cosa… Potevi anche solo dire “Bon après-midi!”, era poesia per i miei timpani che riconobbero subito la tua voce tra tanti. Ti sedesti di fronte e avevi un libro che non riuscivo a leggere il titolo, poi la rivelazione: “Le due inglesi e il continente!”. Avevamo già un legame senza conoscerci, ed eravamo nostri ancora prima di presentarci. Non avevo bisogno di sapere il tuo nome, mi bastava sapere che libro stavi leggendo, e la tua libreria di cosa era piena. I film che rivedevi al cinema anche due volte di seguito. La musica che ascoltavi mentre cucini qualcosa di molto veloce con quello che c’è nel frigo. I quadri che ti catturavano lo sguardo. Le fotografie che ti facevano piangere. Non volevo scambiare i numeri, ma le nostre passione perché già eri qualcosa che mi appartenevi e che io appartenevo a te. E comunque, tornado al primo incontro, c’è da dire che ti accorgesti di me perché feci cadere il succo e il chiedi al cameriere se mi portava un altro succo e se poteva pulire il tavolino. Tu mi guardasti, e io ricambia: ci scambiammo promesse in quegli sguardi ancor prima di stringerci la mano, Antoine. E niente, dopo tornasti a leggere il tuo libro ed io bevvi il mio succo cercando di non farlo cadere di nuovo. Tornai anche io a leggere, ma vedevo il tuo sguardo riflesso sulle pagine. Mi sforzai di non alzare lo sguardo per poter incrociare il tuo e beccare i tuoi occhi fissi su di me. Non lo feci, e quando alzai lo sguardo tu eri andato via. Chiusi il libro e chiesi il conto.
«Già pagato, e c’è un biglietto per lei. E lei deve rispondere a sua volta su questo biglietto e darlo a me». Il cameriere lo poggiò sul tavolo e se ne andò prima ancora che potessi dire grazie. Il biglietto era un fazzoletto del bar, uno di quelli che non pulisce mai e che si reputano inutili, ma in quel momento fu bellissimo. Non era più un semplice fazzoletto, ma divenne qualcosa di prezioso, un rituale. Scrivesti un semplice “Bon après-midi, chère!”, e io scrissi, a mia volta “Bon après-midi, cher!”, e, lo consegnai al cameriere che sorrise. Mi sentivo leggera mentre camminavo per le strade di Parigi, e sembrava che qualcuno mi stesse accanto nella mia passeggiata da turista. Non mi sentivo più sola, ma in compagnia, una vera compagnia. Ero con te. Avevo il cappotto lungo con strisce rosse e nere, e un cappuccio malandato e ancora non sapevo che avresti amato così tanto. Amavi la mia aria da eterna ragazzina che non si curava della classe, ma che riusciva comunque ad attirare sguardi su di lei. Per una settimana andammo avanti così, e il cameriere sembrava il postino, il nostro postino personale. In un’epoca dove i messaggi telematici hanno il sopravvento, chiunque si meraviglierebbe. “Les mots sur le papier”, firmavi il fazzoletto. Ogni giorno trovavo un tuo saluto e tu trovavi il mio, un rituale come il solito caffè, o meglio, il solito succo alla mela. Un giorno non trovai nessun messaggio, ma te seduto al mio solito tavolo. Eri bellissimo: occhiali neri che ti nascondevano lo sguardo, capelli scuri baciati dal vento, labbra carnose, ma non troppo, e mani dalle dita lunghe che poi avrebbero accarezzato la mia pelle. È bello ricordare: ti permette di risaltare dettagli e arricchirli con le emozioni vissute. La felicità è un ricordo di un profumo che sentirai anche sugli abiti che lui non ha mai sfiorato. Per esempio: ho un foulard nero qui, e sembra che tu abbia lasciato il tuo profumo. Un foulard che tu non ha mai toccato. Credo che tu ci sarai sempre anche quando la mia memoria inizierà a venir meno, e il colore dei tuoi occhi sarà scolorito. Il nostro primo incontro, soprattutto non dimenticherò mai. I giorni successivi mi chiedesti di bere qualcosa insieme mentre il sole di Parigi sarebbe tramontato. Amavi i tramonti, dovevo capirlo da questo piccola particolare che non saresti restato. Sei un dolce dolore che ricordo sempre con sorriso, anche se sto male. Mi fai ancora male a distanza di anni, ma va tutto bene perché adesso sono felice nel modo convenzionale, nel modo in cui sono felici tutti: senza pretese romantiche. L’amore romantico è il passato, l’amore coniugale è il presente e il futuro. Nessun amore troppo forte può durare perché scoppia e si perde nell’aria. Un amore come il nostro, Antoine era troppo da romanzo, con bigliettini e lettere che ci scrivevamo anche se vivevamo insieme. Ho qui le tue lettere. Non le ho mai buttare. Sono come un tesoro prezioso che da brava archeologa custodisco da anni. Andiamo indietro nel tempo, Antoine? Scrivere non serve a ritornare indietro nel tempo, e tasto dopo tasto si sentono le parole scorrere libere sul bianco. Ci sono persone che dopo anni dimenticano il volto di chi non vedono da tanti anni, e io il tuo lo ricordo come se l’avessi visto cinque minuti fa. Ti sei nascosto nei miei occhi: riesco a vederti senza poterti accarezzare. Ho qui le tue lettere. Ho qui quello che mi resta di te. Ed ora che sono qui, seduta allo stesso bar che ha cambiato gestione e non è più così familiare. Nulla mi sembra appartenere qui, neppure la bellezza che da sempre questa città possiede. Parigi non è più la Parigi di noi due, e una città che si studia sui libri di geografia.
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Ti ricordi il nostro primo appuntamento? Quello che mi chiedesti a voce, quando ti trovai al mio solito tavolino con in mano il succo di mele, e dalla tua smorfia, dedussi che non piaceva.
«Ti piacerebbe venire a cena con me? Nulla di particolare, sono uno studente e tutto quello che posso offrirti, al momento, è una cena a casa mia». Ti guardai incantata, come se negli spazi dei tuoi denti ci fossero versi di poesia solo per me. Non eri un poeta, eri la poesia direttamente. E mi innamorai. Come quando in primavera le rondini annunciano la nuova stagione e i fiori iniziano a colorare i campi. M’innamorai come la carta ama l’inchiostro. Come la terra ma le proprie radici. M’innamorai di te e non ricordavo più chi ero. Avevo nuove sembianze e un nuovo colore: eri l’amore della mia vita e riflettevo di quel mi davi e di quello che mi dicevi. Ero in te e sempre più fuori in me.
«Adoro gli studenti poveri: hanno un fascino artistico e qualcosa di magico», ti riposi, ricordi? E tu sfoggiasti il tuo sorriso perfetto e mi passasti il succo alla mela.
«Ginevra, mi piace davvero tutto di te. Mi piace come leggi e come ti perdi dentro la storia: sembri assorta e nulla esiste più intorno a te. Mi piace il tuo ciuffo ribelle e la lunghezza dei tuoi capelli ramati. Mi piace come ti pulisci la bocca col bordo del giubbotto e come ti assicuri che la macchia non abbia lasciato segni evidenti. Mi piace il tuo cappotto rosso, sembra che solo tu possa indossarlo. E mi piace il tuo volto, piccolo e baciato dal cielo parigino. Ma ciò che non mi piace di te, è la tua passione per il succo di mele: la morte!». Risi di cuore e non riuscivo a smettere, con la tua faccia buffa e il tuo accento così vivo, ancor di più con toni dispregiativi verso il mio succo preferito. Presi il mio succo e lo bevvi dalla parte in cui avevi posato le tue labbra, e fu un momento molto erotico: entrambi stavamo bruciando dalla passione e mi avresti presa su quel tavolo se non ci fosse stato nessuno. Mi stavi spogliando con gli occhi, mi stavi toccando con gli occhi, mi stavi baciando con i tuoi occhi. I tuoi stupendi occhi che ora sono su qualcun’altra e non più su di me. Siamo passati di moda, vero? Mi tieni nell’inventario dei momenti belli? Spero di sì. Non mi ha lasciato in mal modo, devo ammetterlo. Hai preferito lasciarmi che tradirmi, e ho apprezzato questa tua sincerità.
«Forse se bevuto dalla tua bocca e succhiato dalle tue labbra, potrebbe piacermi», mi sussurrasti, avvicinandoti di più e prendendomi la mano. Mi catturasti senza difficolta in un pomeriggio di gennaio, davanti ai clienti del bar. Avevi allungato la mano e ti eri preso tutta me stessa nel giro di pochi istanti.
«Puoi sempre provare: tutti meritano una seconda possibilità Anche un semplice succo di frutta», ti proposi e ressi il tuo gioco. E tu, da abile giocatori di scacchi, avevi fatto scacco matto senza troppa fatica e mi avevi già dentro di te. Ci ritrovammo a casa tua, sul letto nudi a far l’amore e la vita. Ci fondemmo e non mi importava che non ti conoscevo e che potevi essere di un’altra: in quell’istante eri mia e io era tua. Non contava niente. Anzi, non esisteva niente. Solo noi due. Per cena, mangiammo un piatto di spaghetti col pomodoro e formaggio e una frittatina e spinaci al burro. Ti piaceva cucinare e ti dilettavi in piatti semplici ma squisiti. Dopo il un tortino al cioccolato fondete e un caffè, rifacemmo l’amore e la vita insieme. Amore e vita. Vita e Amore. Non l’ho mai più ripetute queste parole dopo me e te. Amore e vita, ricordi?
Il giorno dopo mi svegliasti con una colazione ricca e piena di cose buone: c’erano i croissant appena sfornati da farcire con crema di nocciola o marmellata alla ciliegia. Avevi molto premure per me. Ti preoccupavi di aver sempre in frigo e in dispensa ciò che mi piaceva. La marmellata alla ciliegia è la mia preferita e tu senza saperlo, l’avevi già a portata di mano. Capivi senza troppe parole ciò che mi piacevi e avevi con te tutto ciò di cui ero golosa. Compresa la tua pelle e tue labbra. Come quella volte che invece di spalmare la marmellata sul pane tostato, ancora fumante, la spalmai sul tuo braccio e la leccai con voracità, come un’affamata. Ti piacevano le mie stravaganze erotiche e ti piaceva come gemevo e sorridevo mentre si esplodeva l’uno nell’altra. Invocavo il tuo nome ad alta voce e tu aumentavi la spinta, le spinte. Avevi una mania nel stringere i miei capelli e sentirli impotenti nel tuo pugno. Volevi arrivare a possedere i miei pensieri, quelli che non rivelavo ad alta voce, vero? Basta chiedere e ti veniva dato. Ma avrei voluto ugualmente che mi stringevi i capelli, mi sentivo debole e mi piaceva sentirmi così con te. Amore e Vita. Vita e amore. Chi l’avrebbe detto che non l’avrei più fatto e che mi sarei accontentato di un dolce amore coniugale.
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I nostri giorni insieme erano stupendi e pieni di novità. Quando mi chiedesti di trasferirmi e feci tanti lavori pur di mantenermi. Avevo già terminati gli studi di architettura e mi ero laureata a tempo record, mentre tu eri uno studente fuoricorso, mentre io una laureata fuori sede, che non aveva intenzione di vivere a Parigi e poi si è ritrovata a dividere un minuscolo monolocale e dopo mille lavori, mi presero in uno studio di architetti e tu che iniziasti a prendere sul serio gli esami e recuperati i due anni fuoricorso. Ti arrangiavi scrivendo tesi per altri e racconti su riviste. La letteratura era nel tuo sangue come lo era nel mio ed eravamo uniti, da una passione incredibili per le parole e i libri antichi, le prime edizioni di tutti i libri erano la nostra caccia al tesoro. Una lacrima e le altre che corrono dietro bagnano queste parole, rendendole ancora più sincere, più vere. Mi mancano quei giorno, Antonie. Mi manca quello che eravamo insieme di quello che potevamo essere, ma tutto finisce. Ciò che è troppo grande, finisce perché non c’è spazio in un mondo così piccolo per un amore troppo grande. O è solo una mia giustificazione per non odiarti del tutto, per conservati dentro di me con amore. Amore e Vita. Vita e Amore.
Siamo carta ingiallita e qualcuno un giorno leggera della nostra, di due che si sono amati e si sono perduti, e ancora c’è qualcosa che li lega. Lo so che c’è ancora qualcosa di speciale tra di noi, ma non posso, non sono quel tipo di donna che tradisce. Anche se ti vedessi per strada, cercherei di evitarti e guardarti da lontano perché tu sei Amore Vita- Vita e Amore e io potrei finire nel tuo letto o nella tua auto, senza neppure rifletterci e provare pena per chi mi è affianco e ha pensato di portarmi a Parigi dopo la notizia della mia dolce attesa. Sono due settimane… e mi ha portata qui perché crede che il mio legame con Parigi sia solo turistico e letterale. Non sa tutte le stradine che abbia corso insieme e i tavolini dei bar dove, in tempi di ristrettezze economiche, dividevano una fetta di torta per poterci tornare più spesso. Non sa della sorpresa che ti feci per il tuo primo compleanno trascorso nella nostra casa da poveri, ma eravamo felici, con una torta realizzata da me dopo un pomeriggio di ricerche su internet. Una torta al cioccolato e ripiena di crema alla nocciola, la tua crema preferita. E i girasoli che mi facesti trovare in tutta casa il giorno del mio primo compleanno con te? Con una torta piccolissima e delle candeline riciclate. Un biglietto d’auguri e una collana comprata dal vecchio Andrè, con la sua bancarella che girava di angolo in angolo della città. Una collana con un ciondolo stupendo: un quadrifoglio bellissimo. Lo tengo ancora con me, sotto la maglietta, accanto al cuore. Non riesco a portare un’altra collana, perché tutte si posano sul petto e finisco per sfiorare il cuore, e quello è il luogo dove vivi ancora, incessantemente.
I tre anni volarono e sembrò di vivere in uno di quei film con le luci calde e i dettagli messi in risalto. Dove la tecnica è quasi più importante della storia stessa e dei personaggi. Forse Parigi ci ha unito per po’ perché aveva bisogno del nostro amore all’epoca. Aveva bisogno delle nostre risate e del nostro solito caffè al bar dove ci eravamo conosciuti. E il succo alla mela, che il cameriere ci offriva almeno una volta a settimana e si sedeva con noi a fine turno. Era bravo, ma non ricordo il nome. C’è l’ho sulla punta della lingua ma niente. Il succo di mele non l’ho più bevuto e ora sono seduta allo stesso bar, dopo cinque anni lontana da te senza di te. Ho ordinato un caffè lungo e dei pasticcini, e accarezzo il mio ventre che contiene una vita che pulsa e batte. Ancora piccolina, ma è lì che si fa sentire. Spero che avverta le mie carezze e il mio amore. Carlo è contento di questa attesa e non vedo l’ora di tappezzare la nostra casa di foto e giocattoli che lei o lui userà e getterà secondo l’umore. Mi squilla il telefono e rispondo velocemente. Carlo mi ha avvisato che sta bevendo una cosa con un suo vecchio amico. Carlo ha amici ovunque, anche se andassimo Arabia. Non mi sorprenderei che uno sceicco ci invitasse a cena da lui. Carlo è amato da tutti. È una bellissima persona dal cuore buono e giusto: sa quando essere duro con le persone e soprattutto con chi. Lo conobbi due anni, al cinema e ci ritrovammo dopo il film a commentare il documentario su Renoir. Lui insegna arte in un liceo ed è molto attivo nel suo movimento culturale. Non si ferma. Non si annoia mai. Non ha tempo per pensare al passato, perché per lui sta dietro le spalle e va lasciato lì. Ha ragione.
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Comincia a piovere e sento uno strano profumo nell’aria, e invece di correre dentro resto seduta e lascio che la pioggia mi bagni e mi renda fredda e tremante. Sono poco giudiziosa. Lo so che dovrei alzarmi ma sono come paralizzata sulla sedia. Alzo gli occhi e rivedo i miei ieri tutti in un colpo. Vedo un Antoine più grande, coi capelli corti, senza quella foltezza di cui ero pazza, vestito con un completo serio e quasi elegante. Una borsa da ufficio e uno sguardo da adulto.
«Ginevra…», pronunciò il suono della mia voce e mi fece vibrare ogni parte del mio corpo. È ancora lo stesso Antoine nel mio cuore. Provo ancora lo stesso amore, ma lo terrò a bada.
«Antoine, come stai?».
«Bene…da poco sono uscito da scuola. Insegno letteratura al mio vecchio liceo». Rimane allo stesso posto, non si avvicina e non si allontana: la giusta distanza che serve con noi. Troppo lontani per parlare e troppo vicini per altro. Ma quanto è ancora bello, non riesco a crederci! La pioggia gli cade sul completo grigio e scivola per terra, come se stesse giocando con suo tessuto.
«Ottimo, io lavoro per un’azienda di costruzioni e mi trovo bene».
«Sei in gamba tu!», si limita a dire, «Novità?». Mi chiedi se ci sono novità? Ho fatto il percosso che fanno tutti per disintossicarsi dall’adolescenza e io sono stata più che fortunata perché provo un amore sincero per Carlo. Non quello romantico ma è reale.
«Sono incita. Sono qui in vacanza con Carlo, mio marito». Lui rimane sorpreso ma si sforza di sorridere e si avvicina per farmi gli auguri. Le sue labbra si posano sulla mia pelle e il tempo si ferma, come se fossimo tornati in quel pomeriggio di gennaio. Solo io e lui. Ma non è più tempo per noi. Abbiamo amato e abbiamo riso insieme, adesso siamo l’una il ricordo dell’altra e va bene così. Non ci siamo saputi tenere. Tu troppo debole per impegnarti. Io troppo vigliacca per lottare. Ti sorrido e ci salutiamo. La pioggia smette e lo so che, anche a distanza di anni, quando avrò le rughe, se mi ritroverò a Parigi e pioverà, tu sarai di fronte a me. La pioggia di Parigi ha il tuo profumo come io ho il profumo della marmellata alla ciliegia, ricordi?