Tante storie magiche
LA CASCINA DEGLI INCONTRI
LA CASCINA DEGLI INCONTRI
Un racconto di Simona Maria Corvese
Copyright© 2018 Simona Maria Corvese
Come cresce un bambino in un orfanotrofio o in una casa famiglia? I rapporti di alcune associazioni no-profit ci dicono che nell’Europa centrale e in quella dell’est c’è la più alta concentrazione nel mondo di bambini che crescono in orfanotrofio. Molti di questi bambini non sono realmente orfani ma sono stati abbandonati o allontanati dai genitori. In Italia non abbiamo più gli orfanotrofi come siamo abituati a immaginarli. Non ci sono più i collegi ottocenteschi con grandi camerate, in stile dickensiano… insomma non immaginiamoci piccoli Oliver Twist o gl’istituti come quelli descritti da Dickens in Nicholas Nickleby. Oggi ci sono le case famiglia e non tutte le situazioni di distacco familiare sono irreversibili. Talvolta accade che i minori affidati a comunità-famiglia incontrino periodicamente i loro genitori naturali in apposite strutture, mantenendo un dialogo, un sottile filo di lana, che li lega l’uno all’altro. Accade così che il minore vive in una struttura il cui indirizzo non è noto al genitore. Quando li fanno incontrare, i bambini vengono portati da un educatore in un luogo convenuto, dove potranno trascorrere un po’ di tempo insieme. Ho assistito, per puro caso, a incontri commoventi e, ricordando alcuni di essi, è nata questa brevissima storia.
Buona lettura
Simona
LA CASCINA DEGL’INCONTRI
Jacopo era arrivato in anticipo all’appuntamento. Quel giorno avrebbe rivisto suo figlio dopo un mese. Era nervoso e attendeva con ansia quel momento. Ogni mese cambiavano il luogo dell’incontro e questa volta si sarebbero visti in una cascina. “Che stranezza”, pensò quando gli comunicarono l’indirizzo. “Una cascina in piena città metropolitana di Milano…”. Di sicuro non avrebbe fatto fatica a trovarla come il centro scolastico della volta precedente. L’assistente sociale gli aveva garantito che per qualche tempo, ora che si avvicinava il periodo estivo, gl’incontri sarebbero stati lì, alla cascina.
Era arrivato con troppo anticipo. La donna che gli aveva aperto il cancello gli aveva detto di accomodarsi in giardino e lo aveva lasciato lì, in cortile, solo con i suoi pensieri. Era una tiepida giornata di maggio e Jacopo in un primo momento aveva passeggiato per il cortile di quella bella cascina completamente ristrutturata. Una scalinata, la cui ringhiera era completamente coperta da gelsomini in piena fioritura, emanava una fragranza intensa e dolciastra, che si sprigionava a ondate. Portava al primo piano, dove c’erano gli uffici e gli appartamenti che si affacciavano su un’unica balconata che correva lungo tutti e 3 i lati dell’edificio. L’aspetto era quello di una tipica casa di ringhiera milanese ma molto curata. Tutte le finestre si affacciavano su un semplice giardinetto, un’aiuola dalle dimensioni poco più grandi di un fazzoletto. Jacopo era accaldato, così si avvicinò alla singolare fontana collocata sotto un’edicola in muratura. La osservò con attenzione e capì che in origine doveva essere stato un lavatoio. Chi aveva ristrutturato tutta la cascina aveva voluto conservare gli angoli più tipici di quel luogo, cosi’ ora Jacopo si trovava di fronte a una fontanella da azionare con una leva. Vi si avvicinò e cominciò a muovere delicatamente il manico della leva su e giù: al terzo movimento l’acqua cominciò a scorrere copiosa dal rubinetto. Si chinò e, mettendo le mani a coppa prese un po’ d’acqua che bevve con avidità. Era freschissima. Si guardò intorno ma vide che le panchine e il tavolo in legno, simili a quelli che si trovano nelle aree per i pic-nic, erano completamente al sole. L’abete che riempiva quel fazzoletto di verde accanto al lavatoio non gettava ancora la sua ombra in quella direzione ed era un pomeriggio troppo caldo per sedersi al sole. Tornò sui suoi passi e raggiunse il portico da dove era entrato. Vicino alla porta di un ufficio al pian terreno era stato appoggiato un cassettone in legno dipinto di nero e dall’aria malconcia. Aveva un lucchetto che lo chiudeva e lo faceva sembrare un grande scrigno del tesoro dei pirati. Jacopo lo raggiunse e andò a sedersi lì. Si guardò intorno ma non vide nessuno. Controllò l’orologio. L’assistente sociale avrebbe già dovuto essere arrivato. Questa cosa cominciava a innervosirlo.
Proprio in quel momento, da una finestra aperta al primo piano, giunse la melodia di un pianoforte. Era uno studente, o forse una studentessa che si stava esercitando suonando Comptine d’un Autre Eté: l’Après Midi di Yann Tiersen. Il profumo dei gelsomini, il sole primaverile, la musica delicata e rasserenante… ma tutto ciò non bastava a tranquillizzarlo. Dov’era suo figlio? Perché non era ancora arrivato?
Uno psicologo scese dalla scalinata dei gelsomini e lo raggiunse. Lo pregò di pazientare ancora un po’. “L’educatore mi ha chiamato poco fa, dicendo che è a 10 minuti da qui. Sono rimasti imbottigliati nel traffico perché c’è stato un incidente. Stia tranquillo, Jacopo. Tra poco saranno qui”, lo rassicurò l’uomo. Era alto, biondo, con gli occhi chiari. Sembrava un inglese ma non lo era. Vestiva in jeans e polo turchese. Un paio di occhiali dalla montatura leggerissima, quasi invisibile, gli conferiva un aspetto fine ma alla mano. Aveva all’incirca l’età di Jacopo, 38, forse 40 anni… e aveva notato quanto Jacopo fosse nervoso in quel momento. Lo osservò per qualche istante e comprese l’apprensione e la tensione che stava provando. Jacopo indossava un paio di jeans chiari consumati e una camicia azzurra con le maniche arrotolate, che aveva passato tempi migliori. Sedeva sul cassettone nero, che tutti chiamavano il forziere dei pirati e stringeva nervosamente i suoi bordi con le mani, dondolandosi avanti e indietro ritmicamente. I suoi occhi blu, in netto contrasto con i suoi capelli neri e mossi, avevano uno sguardo intenso e, in quel momento avrebbero fulminato chiunque avesse cercato d’impedirgli di vedere suo figlio. L’uomo andò a sedersi accanto a Jacopo, all’altro capo del cassettone e intavolò con lui una conversazione per cercare di calmare la sua ansia. Gli parlò del bambino, di come stesse frequentando la terza elementare con molto profitto. “Le sue insegnanti a scuola ci dicono che è un bambino dolcissimo e molto intelligente. Deve essere fiero di lui”, gli disse.
Jacopo annuì distrattamente, pensando al momento in cui avrebbe potuto tornare a viere insieme a suo figlio. Un anno prima gli era crollato il mondo addosso e, da quel momento, la sua vita era diventata un incubo.
Jacopo era un ragazzo padre. Aveva cresciuto da solo suo figlio Luca. Non si era mai risparmiato in quelli che erano i suoi doveri di genitore ma non era semplice crescere da solo un figlio e far quadrare i conti. La madre del bambino era una drogata entrata e uscita più volte da comunità di riabilitazione. Quando Luca aveva due anni fu trovata morta per overdose in un parchetto cittadino. Jacopo non aveva altri parenti. I suoi genitori erano morti quando aveva 20 anni e se l’era sempre dovuta cavare da solo nella vita. Viveva in affitto con suo figlio in un bilocale alla periferia di Milano, in attesa di ottenere un mutuo dalla banca. Mutuo che non gli era mai stato concesso perché percepiva uno stipendio troppo basso. Jacopo lavorava in una software house come informatico, con un contratto di consulenza. Un anno prima l’azienda aveva perso importanti commesse di lavoro a causa della crisi economica e non aveva potuto assumerlo, come era stato promesso al colloquio. Gli comunicarono che il suo contratto sarebbe terminato con la fine dell’anno e non lo avrebbero neppure rinnovato. La situazione era precipitata velocemente. Jacopo aveva cercato subito altri lavori. Era disposto ad accettare qualunque lavoro, purchè fosse onesto, ma tutto quello che gli proponevano erano contratti di 2-3 mesi alla volta, dalle retribuzioni sempre più basse. A un certo punto non riuscì più a pagare l’affitto e dovette abbandonare l’appartamento. Andò a vivere in macchina con il figlio. La sua Ford focus station wagon era il loro unico rifugio in quel momento. Cercò di nascondere per un po’ la sua situazione, soprattutto con la scuola. Ma quando arrivò l’inverno il piccolo Luca si ammalò di polmonite e la scuola fece intervenire gli assistenti sociali. Il bambino venne subito affidato a una casa famiglia.
Jacopo stava facendo di tutto per risollevarsi da quell’inferno. Il giudice gli aveva detto che quello sarebbe stato un distacco temporaneo, in attesa di tempi migliori… ma era già passato un anno e mezzo e le cose non erano cambiate. Ora lavorava come lavapiatti e uomo delle pulizie in un rinomato ristorante di Milano. Lo stavano valutando, non si fidavano ancora di lui ma Jacopo sapeva che se si fossero convinti della sua serietà e della sua voglia di lavorare, prima o poi lo avrebbero assunto… prima o poi… ma quanto ancora avrebbe dovuto pazientare? Sarebbe bastato poco e avrebbe potuto pagare l’affitto di un appartamento… anzi, con gli stipendi che pagavano in quel ristorante blasonato, avrebbe potuto accendere il mutuo che tanto sognava e dare una casa accogliente a suo figlio. Non ce la faceva più a dover raccontare scuse al suo piccolo Luca, quando gli chiedeva: “Papà, quando torniamo a vivere insieme?”.
Da pochi mesi Jacopo aveva conosciuto una ragazza, un’assistente sociale che seguiva i poveri disgraziati come lui e tra loro era nata una simpatia. Lei non lo aveva mai trattato come un perdente senza possibilità di riscatto e questo gli era stato di grande conforto e stimolo per andare avanti. Quando la guardava provava tenerezza per il suo entusiasmo giovanile ma anche tanta rabbia per non poter costruire niente più di un’effimera relazione con una donna. La povertà gli aveva tolto tutto, soprattutto la speranza. Sara era la luce che aveva riacceso in lui la speranza, la luce che gli aveva impedito di gettare la spugna con suo figlio.
Qualcuno suonò al citofono della cascina, riportando improvvisamente alla realtà Jacopo.
Di lì a poco un uomo di mezza età entrò tenendo per mano un bambino.
Jacopo riconobbe subito il suo piccolo Luca e gli andò incontro, sotto il portico. Il bambino era la sua copia perfetta: moro con gli occhi blu e la pelle chiara ed era cresciuto parecchio dall’ultima volta che lo aveva incontrato. Il suo fisico slanciato lasciava intendere che sarebbe diventato molto alto, come il papà.
L’educatore che accompagnava Luca salutò Jacopo poi glielo affidò.
Jacopo non poté trattenere l’emozione e abbracciò con calore il bambino. Si staccò quasi subito da lui, percependo però il suo atteggiamento freddo e distaccato.
“Cosa succede cucciolo? Non sei contento di vedermi?”, gli chiese Jacopo.
Luca annuì tenendo lo sguardo fisso verso terra.
“Ehi… tu sei sempre nei miei pensieri e ti vorrò per sempre bene. Lo sai questo?”, gli chiese Jacopo.
Lentamente Luca alzò lo sguardo, rivolgendogli un dolcissimo sorriso e gli gettò le braccia al collo.
Jacopo si commosse ma trattenne le lacrime: non voleva far vedere a suo figlio quel momento di smarrimento. Lo prese per mano e andarono sedersi su una delle panchine nell’aiuola.
“Ho una sorpresa per te: vediamo se indovini cos’è!”, disse infilando una mano nella tasca dei jeans.
“Figurine dei calciatori?”, domandò il bambino con lo sguardo ipnotizzato in direzione della mano del papà.
“Acqua!”, rispose Jacopo, strizzando l’occhio.
“Una macchinina?”, riprovò il bambino, sporgendosi verso il papà.
“No!”, rispose Jacopo con aria impertinente.
“Uffa, almeno dammi un aiutino, papà…”.
“E va bene. Mi hanno detto che a scuola sei molto bravo in storia e che ti piacciono molto…”
“Ooh… mi hai preso un nuovo dinosauro di plastica per la mia collezione!!, indovinò Luca.
Jacopo rise vedendo l’espressione di sorpresa del figlio.
“Sì, ho preso due bustine in edicola stamattina… spero non siano dei doppioni… Forza, aprile e vediamo se siamo stati fortunati!”.
Estrasse le due bustine dalla tasca dei jeans e le fece scivolare sul tavolo, in direzione del bambino.
Questi le aprì impaziente e vide che erano due nuovi animali, uno dei quali il Triceratopo, il suo preferito. Si avvicinò al papà, gli diede un bacio e gli porse uno dei due dinosauri.
“Dai papà, giochiamo subito! Tu tieni il T-Rex e io il Triceratopo”, lo esortò il bambino, emozionato all’idea di poter giocare con il papà.
Il pomeriggio trascorse velocemente e Jacopo volle sapere tutte le belle cose che faceva il figlio: gli sport che gli facevano praticare, le materie che stava studiando a scuola e anche quali erano i suoi cartoni animati preferiti.
“Senti, devi assolutamente dirmi su quale canale li fanno e a che ora, così la prossima volta che c’incontriamo ci raccontiamo le puntate che ci sono piaciute di più”, gli disse Jacopo.
Il pomeriggio volgeva al termine e una gentile brezza cominciava a soffiare, portando un po’ di refrigerio a quel caldo pomeriggio. Jacopo e Luca si erano andati a sedere sul prato, all’ombra del grande pino, con la schiena appoggiata al suo saldo tronco.
Luca si era abbandonato all’abbraccio di Jacopo, adagiando la testina sul petto del papà, proprio in corrispondenza del cuore. Gli era sempre piaciuto, sin da quando era piccolissimo, ascoltare la cadenza regolare dei suoi battiti: era una cosa che lo rassicurava tantissimo. Udendo le sue parole, il bambino alzò lo sguardo verso il papà, guardandolo meravigliato.
“Papà… ma come fai a vedere i cartoni animati in macchina? Non hai la televisione lì…”, osservò Luca.
Jacopo lo guardò con tenerezza e gli accarezzò la folta chioma di riccioli corvini. “Non vivo più nella station wagon. Adesso sono in un residence dove vivono altri papà come me. Ognuno ha la sua stanza.”, gli spiegò Jacopo.
“Perché allora non mi porti con te?”, chiese prontamente il bambino.
Ci fu qualche istante di silenzio, poi Jacopo gli rispose con sincerità. “Perché in quel residence vivono solo gli uomini “caduti” come me. Non ci permettono di tenere i bambini perché lì non ci sono solo i papà… non è un posto adatto ai bambini, Luca”.
Il bambino annuì e un velo di tristezza rabbuiò il suo sguardo.
“Non essere triste, Luca. Ti prometto che ce la farò a ripartire e ti verrò a riprendere. Ti voglio troppo bene per rinunciare a te. Non dimenticarlo mai. Mi hai capito?”.
Luca annuì e Jacopo lo attrasse a sé, abbracciandolo forte.
Un delizioso profumo di pane appena sfornato pervase tutto il cortile e dalle cucine si affacciò la signora che aveva accolto Jacopo quando era arrivato alla cascina. “È pronta la merenda”, disse a voce alta, guardando nella loro direzione. “Oggi pane fresco della cascina e marmellata! Coraggio, venite a prendere la vostra fetta”, li invitò energica.
Jacopo e Luca la raggiunsero nelle cucine, dove trovarono un vassoio colmo di fette di pane casereccio appena tagliate. Sedettero al tavolaccio sgangherato, imbandito con un’allegra tovaglia a motivi floreali, tanti tovaglioli di carta colorati e due grandi barattoli di marmellata.
“Quale apriamo? Marmellata d’arancia o confettura di pesche?”, chiese Jacopo rivolgendosi al bambino.
Luca puntò deciso il ditino verso la marmellata d’arance.
Jacopo forzò il coperchio del barattolo ancora sigillato poi, servendosi con un cucchiaino da te, spalmò abbondantemente le fette di pane, che lui e Luca divorarono con golosità. Jacopo aveva un talento innato per riconoscere il cibo di qualità e quello che stava gustando in quel momento con il figlio, lo era.
Terminata la merenda, Jacopo ringraziò la cuoca poi uscì di nuovo in giardino con Luca. Sollevò lo sguardo verso la scala dei gelsomini e vide scendere l’educatore che aveva accompagnato il bambino. Era giunto il momento di salutarsi.
Si diedero appuntamento al mese successivo mentre Jacopo accompagnava Luca e l’uomo fino al parcheggio dove avevano posteggiato l’auto. Si salutarono poi salirono ognuno sulla propria auto.
Mentre guidava, sulla strada per tornare al residence, Jacopo ricevette una telefonata. Accostò al marciapiede e rispose.
“Ciao Jacopo, sono Sara”.
Jacopo sorrise udendo la sua voce argentina. Quella ragazza aveva il potere di rasserenare le sue giornate, anche quelle più buie.
“Com’è andata oggi? Ti andrebbe di raccontarmelo davanti a qualcosa di buono da mangiare, prima che tu prenda servizio stasera?”, gli propose. “Ho anche delle novità da comunicarti”.
S’incontrarono in una trattoria vicino alla casa di lei, due ore dopo. Ordinarono del risotto giallo e poi due cotolette alla milanese. Era il menù tipico del giorno e anche quello più economico ma per Jacopo era già una conquista potersi sedere lì a mangiare. Fino a pochi mesi prima tutto quello che riusciva a fare era sedersi alla mensa dell’Opera San Francesco per i Poveri. Non aveva ancora smesso di ricevere il loro aiuto ma ora cominciava a guadagnare qualcosa. Riceveva anche delle borse di viveri da “Pane quotidiano”, grazie alle quali riusciva a mettere qualcosa da parte a fine mese. “Sorella, fratello, nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni…”, questo era il loro motto e Jacopo gliene sarebbe sempre stato grato. Come tutte le persone cadute in situazioni di difficoltà estrema, voleva affrontare le sue tribolazioni senza essere giudicato. Tutto questo era ancora poco, tuttavia era un segnale che le cose cominciavano a riprendere il verso giusto. Voleva essere ottimista e pensare che ce l’avrebbe fatta a uscire da quell’incubo. Guardò il viso dolce di Sara e per pochi istanti, seduto lì, al tavolo di quell’umile trattoria, sognò un futuro insieme a lei e Luca.
“Ho parlato con il proprietario del ristorante dove lavori”, gli disse lei, guardandolo negli occhi con circospezione. “É molto contento di te, del modo come t’impegni. Non gli è sfuggito il tuo inglese madrelingua e ha notato che conosci molto bene anche lo spagnolo. Spero che presto ti faccia una proposta d’assunzione, Jacopo”, gli rivelò lei.
“Le lingue non servono per lavare i piatti e spazzare i pavimenti”, rise amaramente lui. Allungò il braccio verso quello di Sara e appoggiò la sua affusolata mano su quella di lei, facendole una carezza.
“Non essere così pessimista, Jacopo”, replicò lei alzando lo sguardo verso di lui. “Hanno notato come hai aiutato delle coppie di anziani turisti americani una sera. Se questa cosa non fosse stata di alcun interesse per loro, non credo che me l’avrebbero raccontata”.
La sera in cui si era verificato quell’episodio il ristorante aveva registrato il tutto esaurito e alcuni camerieri, colpiti dall’influenza, non si erano presentati a lavorare. Nell’emergenza avevano chiesto a Jacopo di aiutare a servire ai tavoli ma di non parlare con i clienti. Lui non era un cameriere professionale e in quel locale erano richiesti standard elevatissimi e particolare professionalità con il cliente. Jacopo aveva dimostrato di saper affrontare un imprevisto egregiamente, grazie anche alla sua ottima conoscenza delle lingue e alla sua innata sensibilità.
Jacopo guardò Sara con indulgenza, annuì e le rivolse un sorriso.
Sara volle poi sapere da Jacopo come era andato l’incontro con suo figlio e lui le raccontò tutto.
Terminarono di mangiare poi uscirono insieme dal locale. Sul marciapiede di fronte alla trattoria, Jacopo si chinò verso Sara e la baciò. “Grazie per tutto quello che stai facendo per me”, le disse con sincerità.
Lei arrossì ma contraccambiò il bacio con la stessa intensità.
Si salutarono poi Jacopo corse a prendere la metropolitana. Doveva prendere servizio al ristorante e sarebbe stata una lunga nottata.
Arrivato a destinazione, entrò dalla porta di servizio, sul retro del locale, che dava direttamente accesso alle cucine. La brigata dei cuochi e aiuto cuochi era già all’opera, impegnata a rincorrere i ritmi frenetici di una serata in un sofisticato ristorante stellato. Tutti parlavano in modo concitato mentre in sottofondo, in filodiffusione, un’opera lirica li aiutava a mantenere un buon ritmo di lavoro… e anche a tenere a bada lo stress.
Jacopo si stava allacciando il grembiule bianco, pronto ad affrontare una montagna di padelle da lavare, quando il capo della brigata di cucina lo chiamò.
“Jacopo, per favore, togli il grembiule e vai in direzione. Ti vogliono parlare”, gli disse l’uomo in modo brusco.
Jacopo impallidì. Perché volevano parlargli a quell’ora? Si ritolse il grembiule e salì al primo piano, dove era l’ufficio del proprietario del locale. Bussò alla porta e attese la risposta.
“Avanti”, sentì.
Con esitazione appoggiò la mano sulla maniglia e aprì la porta.
“Buona sera, Jacopo. Si accomodi”, disse con risolutezza l’uomo seduto a un’elegante scrivania in mogano. Aveva modi piuttosto bruschi con tutti ma era un grandissimo chef e un bravissimo imprenditore. Tutti lo temevano ma apprezzavano la sua correttezza con i dipendenti. Era un uomo che pretendeva professionalità e dedizione totale ma sapeva essere leale con i suoi subalterni.
Jacopo, preoccupato, sedette all’altro capo della scrivania. Temeva di dover rivivere un altro licenziamento ma in quel momento non sapeva spiegarsene le motivazioni. Il lavoro non mancava di certo lì… era sicuro di non aver commesso errori sul lavoro e di non aver mai disatteso gli ordini ricevuti dal capo della brigata di cucina.
L’uomo di fronte a lui sorrise affabilmente e fugò ogni dubbio. “Ti ho convocato, Jacopo, perché è giunto il momento di pianificare una collaborazione più stabile con la mia catena di ristoranti. Ci stiamo espandendo e io ho l’abitudine d’investire sui miei dipendenti. Ho un fiuto particolare per individuare il talento delle persone e preferisco farle crescere dall’interno, piuttosto che prenderle esternamente”, gli spiegò giocherellando con la raffinata ed esclusiva penna stilografica che teneva in mano.
Jacopo era sempre più incredulo. Stringeva le mani attorno agli spigoli della sedia dove era seduto, pronto a ricevere la notizia.
“Bene, non perdiamo tempo: questo è il tuo contratto di assunzione”, gli disse porgendogli un sottile plico di fogli. “In questo momento ho bisogno di un Food and Beverage Manger ma quelli che ho incontrato a colloquio fino a ora non mi hanno convinto. Mi sono sempre occupato io di queste cose ma ora che gli affari stanno crescendo non ce la faccio più a fare tutto da solo. So che hai già lavorato in un ufficio in ruoli gestionali e abbiamo constatato la tua ottima conoscenza delle lingue”, continuò l’uomo.
Jacopo cominciava a capire ma non credeva ai suoi occhi.
“Diventerai il mio braccio destro in ufficio. Ti farò seguire dei corsi e tu diventerai il Food and Beverage Manager di tutta la catena dei miei ristoranti. Cosa ne pensi?”, gli chiese a bruciapelo.
Jacopo, dopo un primo momento in cui rimase senza parole, gli esternò la sua sorpresa per quell’offerta e lo ringraziò immensamente.
“Penso che questa offerta mi cambierà la vita e potrò tornare a vivere con mio figlio. Le sarò per sempre grato di questo”, gli rispose Jacopo stringendogli la mano, in piedi di fronte a lui.
Fece per uscire dall’ufficio ma si voltò di nuovo verso l’uomo.
“Solo una cosa, signor Colonna”, disse come se avesse avuto un ripensamento “Perché proprio io e non una persona molto più preparata di me?”.
“Perché quando ero un bambino i miei genitori si sono trovati nella stessa situazione in cui si è trovato lei. Abbiamo mangiato per anni alle mense per i poveri prima di risollevarci. È stato lì, in quelle mense, che ho deciso di diventare un bravo chef da adulto. È stato lì che mi sono ripromesso, se ce l’avessi fatta, di aiutare chi si fosse trovato nelle stesse difficoltà”.
Jacopo lo ringraziò ancora, commosso poi andò a prendere servizio.
Quella notte, quando uscì dal locale, il suo primo pensiero andò a suo figlio Luca e a Sara. Il futuro che tanto desiderava costruire insieme a loro e per loro sarebbe diventato presto realtà. Alzò lo sguardo verso il cielo terso e stellato della notte. Respirò a pieni polmoni l’aria frizzante, chiuse gli occhi pensando a loro e, sorridendo, non si vergognò di lasciar scorrere sul volto lacrime di felicità.
LA CASCINA DEGLI INCONTRI
FINE