Tante storie magiche
Davanti l’uscio di casa
Ho deciso di raccontare la mia storia, una storia banale come tante altre, ma per me speciale e unica. La storia di un amore importante che continua a vivere ed alimentarsi. Una storia d’amore, che come un film ripercorro nei miei ricordi e, che riesce ancora ad emozionarmi. Sono trascorsi venticinque anni, avrebbero potuto essere molti di più questi anni, se solo nel lontano 1978 avessi accettato la proposta della “fuitina”, ma quindici anni erano davvero pochi e io, bambina, dissi di no, anche se l’amore mi scoppiava nel petto, quell’amore genuino e limpido che esplode nel pieno dell’adolescenza, quando sei innamorata più dell’amore che non della persona. Quell’amore a cui dai un volto, un nome, una voce. Era settembre del 1977, avevo quattordici anni, una bambina che si affacciava nel meraviglioso quanto travagliato periodo della vita dove inizi a provare i primi turbamenti. Abitavo nel corso principale, ci abito ancora, mi sono solo spostata di qualche metro, di un piccolo paese che non ho mai voluto lasciare. Ero davanti l’uscio di casa, intorno le cinque di pomeriggio arrivava il pullman di Palermo e faceva la sua fermata davanti la Chiesa Madre, di fronte casa dei miei genitori. Quel giorno ero lì a godermi il tipico tramonto di fine estate, vidi scendere un ragazzo in divisa, incuriosita soffermai lo sguardo su quella figura slanciata e sicura di se. Mentre aspettava, si era seduto sul suo baule, quello che davano in dotazione ai carabinieri, ora in bella vista in un angolo del salotto. Un fisico atletico e un viso di una bellezza straordinaria, i suoi occhi a mandorla incontrarono i miei, rimasi molto turbata e abbassai lo sguardo ma solo per pochi secondi, riguardai quel bel viso incorniciato da capelli biondo scuro, fissai la sua bocca carnosa che neppure i baffi riusciva a nascondere. Credo che in quel preciso momento qualcosa di immenso accadde dentro di me e, come successivamente mi confessò, anche dentro di lui. Rimasi a guardare, quella che per me era una visione celestiale. Cercavamo, con scarsi risultati, di risultare indifferenti, tanto che lui accenno’ un sorriso. Dopo meno di dieci minuti, arrivò la macchina dei carabinieri e lui andò via riservandomi l’ultima occhiata intensa con quegli occhi scuri che trasmettevano sicurezza e dolcezza. Da lì a qualche giorno iniziò la scuola, ero al secondo anno. Ogni giorno prendevo il pullman che, al ritorno, mi lasciava davanti casa dei miei genitori. Spesso trovavo in cucina, a sorseggiare un caffè in compagnia di mio fratello, quel carabiniere e non riuscivo a capire se fosse più affascinante in divisa o con i jeans e la camicia fuori dal maglione (era quella la moda), ci limitavano ad un saluto di cortesia. Mi innervosiva la sua presenza, lo attribuivo al fatto che non potevo pranzare, ma forse era altro, forse era la convinzione che mai si sarebbe potuto interessare a me che ero poco più che una bambina. Notavo i suoi sguardi teneri e insistenti, soprattutto quando entravo al “Bar Sicilia”, dove stava seduto con il solito bicchiere di ballantine’s in mano. In tutti i contesti non si faceva altro che parlare di Lui. Un giorno dalla parrucchiera, con i capelli ancora bagnati, stavo andando via, non sopportavo più che si parlasse di quel ragazzo, avevo una specie di fastidio, ma poi capii che era solo una sorta di gelosia che non riuscivo a decifrare. Passavano i giorni e in paese divenne un mito, era diventato l’amico di tutti. Giocava al pallone nella squadra del paese, il mitico River Platani in terza categoria poi promossa in seconda sotto la guida del grande Totò La Vardera che vide in quel ragazzo grosse potenzialità. Indossava la maglietta numero nove e in ogni partita centrava la porta almeno due volte, era molto bravo, quando aveva la palla tra i piedi sfrecciava come un cavallo, tanto che si guadagnò l’appellativo “furia”. Il 14 dicembre 1977, il giorno del mio quindicesimo compleanno, mio padre mi concesse di andare ad una serata di ballo rigorosamente con mio fratello. La sala era piena, anche Lui era lì, circondato da molte ragazze che gli ronzavano intorno, ma lui guardava nella direzione dov’ero io. Venne da me un amico in comune e mi disse che una persona voleva conoscermi, quasi restia lo seguii, dopo le presentazioni di rito e una stretta di mano mi invitò a ballare un lento che nel frattempo irrompeva nella sala. Tra le sue braccia, sentii che qualcosa di magico stava accadendo, le sue braccia attorno la mia schiena erano delicate e nello stesso tempo forti, non riuscivo neppure a pensare, semplicemente mi feci trasportare dalla musica. Dopo quel primo ballo ce ne furono altri, davanti lo sguardo irritato di tante altre ragazze che stravedevano per lui, e per tutta la serata non ci siamo più staccati. Da quella sera, tutti i giorni, al netto del servizio di piantone che aveva la durata di ventiquattro ore, ci incontravamo in piazza insieme ad altri amici. Il 19 gennaio 1978 iniziò la nostra storia con tanto di dichiarazione, allora funzionava così. Nel tardo pomeriggio, dopo aver studiato, come consuetudine, in compagnia delle mie amiche, uscimmo di casa. In fondo al corso principale incontrammo quel bel forestiero che in pochi mesi si era perfettamente integrato. Volle parlarmi in disparte, ci siamo messi a camminare. Sotto un albero mi prese dolcemente le mani e guardandomi negli occhi mi chiese se volessi essere la sua ragazza, ricordo come se fosse oggi l’emozione che provai, gli dissi di “si” come se fosse la cosa più naturale. Come tutti gli amori adolescenziali, non pensi al domani, non pensi ad un suo eventuale trasferimento, non pensi a nulla se non vivere il presente, vivere solo ciò che la vita ti offre. Non pensi a nulla se non alla magia che solo l’amore può regalarti senza nulla chiedere in cambio. Ero felice e contava solo questo. L’indomani lo trovai alla fermata dei pullman vicino scuola, fui sorpresa ma raggiante. Ci recammo al “Bar delle Rose”, ci appartammo in un angolo del locale, con dolcezza prese il mio viso tra le sue mani e mi baciò con delicatezza. Era il mio primo bacio, la mia prima esperienza, la prima esperienza di una bambina che scopriva la gioia del suo primo amore. Il cuore mi scoppiava in petto, sentivo vibrare le corde della mia anima, un’esplosione di colori, scoprii la tenerezza e la gioia di amare ed essere amata, per la percezione che può avere un’adolescente. Marinai la scuola, i sensi di colpa erano coperti dalla felicità di scoprire l’intensità di sentimenti nuovi e sconosciuti. Siamo stati tutta la mattina a parlare, alternando parole con baci e carezze. Era il 20 gennaio 1978, una data indelebile che ricordo con tenerezza infinita poiché segnò l’inizio di una nuova fase della mia vita che abbandonava la fanciullezza per iniziare una nuova travolgente esperienza. Iniziò così la storia del mio primo amore. Le giornate trascorrevano tra i banchi di scuola, gli amici e il mio appuntamento quasi giornaliero con quello che era ormai il mio ragazzo. Passeggiavamo lungo il marciapiede, ricordo con infinita tenerezza il suo guardarsi intorno per controllare che non ci fossero occhi indiscreti, per rubarmi un bacio sotto uno dei tanti alberi che costeggiavano il marciapiede. Mi prendeva il viso tra le mani e con dolcezza mi portava con sé in un’altra dimensione. Baci che avevano il sapore della spensieratezza, l’incanto e la bellezza della gioventù. Dopo pochi mesi, la quotidianità del nostro viverci e scoprirci fu spezzata dal suo momentaneo trasferimento a Favignana. Partì per l’isola e il nostro rapporto, fatto di lettere e di telefonate dalla cabina telefonica, cresceva e si alimentava. Quella lontananza, intervallata da ritorni brevi, ci fortificava, anche se la nostalgia ci logorava l’esistenza. Finalmente, dopo un paio di mesi ritornò in paese. Una sera, con una cinquecento avuta in prestito, mi propose la “fuitina”, rimasi basita dalla sua richiesta, non ne ravvedevo i motivi, stavamo bene. La prima cosa che dissi fu che dovevo studiare, mi rispose che mi avrebbe portata da sua madre in attesa che avessi l’età per sposarmi e avrei potuto tranquillamente continuare a frequentare la scuola, dissi che i miei genitori non meritano questo dispiacere. Lui capì che non ero pronta e abbracciandomi mi tranquillizzò. Non compresi quella sera il motivo di quella richiesta, lo capii dopo, dopo aver saputo le motivazioni che l’avevano spinto a fare una scelta tanto importante e impegnativa. Eravamo felici insieme anche se ogni tanto notavo nel suo viso un velo di tristezza, un qualcosa che lo turbava, quando gli chiedevo il motivo di tale tristezza mi sorrideva e mi diceva che non era nulla, che andava tutto bene. Una sera mi disse che l’avevano trasferito lontano e che da lì a pochi giorni sarebbe andato a Venezia, sentii uno strappo al cuore, una lacerazione dell’anima che divenne più profonda quando mi disse che il nostro rapporto doveva chiudersi. Rimasi frastornata, riuscii a dirgli com’era possibile lasciarmi dopo avermi addirittura proposto di andare a vivere con lui. Mi abbraccio stretta e mi disse: “Ti voglio troppo bene per farti del male, ancora sei piccola ma un giorno capirai che quello che ritieni incomprensibile è solo un gesto d’amore e di riguardo. Non posso tenerti legata a me e tarparti le ali. In un momento di disperazione ti proposi di venire via con me senza dirti del trasferimento per non condizionare la tua scelta, ma tu non eri pronta, non potevi esserlo ed è giusto così. Adesso devo lasciarti libera di vivere la tua vita. Un giorno verrò a cercarti per non lasciarti più.” Siamo rimasti abbracciati a lungo, piangevo come una bambina e di fatto lo ero. Non riuscivo a capire, non capivo il motivo di un taglio drastico, non capivo, era fuori dalla mia logica, a quell’età tutto appare facile, anche gestire un rapporto di lontananza, ma aveva ragione lui, aveva ragione e l’ho compreso dopo. Mi asciugava dolcemente le lacrime mentre soffocava le sue, mentre sperimentava sulla sua pelle l’aspetto più doloroso della sua professione, quello che nessun allenamento, anche il più duro, può insegnarti, la forza di lasciare qualcosa di bello e d’importante per seguire un’altra passione, un giuramento che lo teneva legato al dovere preciso di servire la sua patria, aveva fatto una scelta di vita che non ha mai tradito. A casa, rimasta sola nella mia stanzetta, versai tutte le mie lacrime. Dopo pochi giorni partì portandosi il mio cuore. Rimasi da sola con l’anima ferita, il primo amore e il primo dolore, il senso dell’abbandono, ero svuotata e infelice. Fu come aver dato un taglio drastico ad una fanciullezza spensierata e felice e mi fu sbattuta in pieno viso la vera vita con le sue mille sfumature, con le sue gioie e i suoi dolori. Lo rividi dopo meno di un mese in occasione di un matrimonio di amici in comune. Trascorse tutta la giornata con me e io non capivo, non riuscivo a darmi pace perché nei suoi occhi leggevo i suoi sentimenti immutati, leggevo tristezza, leggevo come in uno specchio i miei stessi turbamenti, la mia stessa angoscia, il mio stesso dolore. Rivederci era stata una gioia amara, la gioia del cuore con la consapevolezza che era finito tutto. Anche quella giornata, l’ultima, fini e quello fu l’ultimo giorno che lo vidi. Da quell’ultimo giorno trascorsero tredici anni. Trascossero tredici anni dall’ultima volta che vidi quel bel carabiniere. La mia vita, come giusto che fosse, continuò. All’inizio fu molto sofferta, ma pian piano mi abituai alla mia nuova situazione. Sembrava però che nessun altro rapporto potesse reggere il paragone. Passato il dolore lacerante di quell’abbandono, spesso mi capitava di confrontarlo con altri ragazzi, soprattutto sui comportamenti, era per me un modo per selezionare le persone. Ovviamente ho avuto altre storie come le ha avute lui, ma erano sempre insignificanti o la scelta cadeva su un qualcosa che a priori, anche se inconsapevolmente, sapevo non portasse a nulla. Solo qualche storia importante che mai si concretizzava in un rapporto duraturo, come se ci fosse un disegno preciso già delineato che impedisse qualsiasi altro legame. Passavano gli anni ed io ero sostanzialmente sempre sola. Ho conservato il suo braccialetto d’argento di coccinelle smaltate rosse che mi regalò il giorno di San Valentino, l’unica festa dell’amore festeggiata in tanti lunghi anni, e le sue innumerevoli lettere che mi inviava da Favignana, ogni tanto li scorgevo nel cassetto della scrivania e pensavo a quella storia tenera con nostalgia, ma consapevole che sarebbe solo rimasta nei miei ricordi. Avevo finito i miei percorsi scolastici e molto giovane trovai un lavoro, che mi aveva aperto ad una libertà diversa, in attesa di realizzare i miei veri desideri che comunque mai si sono avverati pur essendoci tutte le condizioni, anche un concorso vinto. Come per tutti i giovani trascorreva la mia esistenza, uscite serali, mare, vacanze, lavoro, amicizie e storie di poco conto. Nel frattempo tutti i miei amici creavano le proprie famiglie e io rimanevo sempre più sola. Era il 31 ottobre 1991 quando, quel bel carabiniere, venne a trovarmi, rispettando una promessa fatta tredici anni prima. Quel giorno era un giorno come tanti altri. Trascorsi la mattinata al lavoro. Nel tardo pomeriggio stavo per recarmi dalla mia amica, mia madre mi disse che aveva bisogno della mia auto e mi chiese di rimanere nel negozio. Ero seduta dietro la vetrina e mentre aspettavo che tornasse, presi la tovaglia che stavo ricamando, ero intenta nel mio lavoro e non vidi passare quel bel carabiniere che era tornato da me. Mi raccontò dopo la sua emozione nel vedermi con il capo chino, completamente assorta nei miei pensieri mentre facevo attraversare l’ago da una parte all’altra del telaio. Ma raccontò di come soffoco’ l’istinto di entrare, di togliermi dalle mani la tovaglia e prendermi tra le sue braccia, ma temeva in un mio rifiuto, temeva di spaventarmi. Quando mia madre ritornò dalle sue commissioni, uscii di casa. Mi chiamò un amico, lo stesso che tanti anni prima ci aveva presentati, voltai lo sguardo e mi disse: “Guarda chi c’è, ti ricordi di lui?”. Sentii il suo sguardo su di me, fu così intenso che arrivò a toccare le corde della mia anima mentre guardavo gli stessi occhi e lo stesso sorriso di quel bel ragazzo che tanti anni prima aveva fatto battere forte il mio cuore. Fui investita da tante sensazioni, riuscì solo a salutarlo mentre lui continuava a guardarmi e mi parlava, chiedeva di me e di come stessi. Ci incamminammo lungo la strada, una passeggiata che durò più di un ora, intervallata dalle tante fermate di amici che lo salutavano con affetto come se fosse andato via pochi giorni prima. Mi disse subito che era tornato per me e io ero sempre più confusa e frastornata. Quando, quella sera, ci separammo, mi diede il numero di telefono della caserma dove faceva servizio e volle il mio. Quella notte non riuscii a dormire, un turbinio di emozioni s’impossesso’ di me, ero confusa, non riuscivo a decifrare le mie sensazioni, non riuscivo a leggere il mio cuore. Ci siamo rivisti l’indomani mattina, seduti in un tavolo del bar abbiamo trascorso molto tempo a parlare, a raccontarci delle nostre esistenze. Mi regalò un profumo, un’elegante boccetta di “Poison”. Doveva tornare al lavoro e lo accompagnai fino all’uscita del paese, lui con la sua auto e io con la mia. Scese dall’auto, apri lo sportello e mi fece scendere, prese il mio viso tra le mani con la stessa dolcezza di tredici anni prima, mi baciò e mi portò con lui nella stessa dimensione, in quel posto esclusivo e magico che era solo nostro, mentre il mio cuore e la mia anima riconobbero quell’amore, svegliandolo dal torpore e facendolo riscoppiare e risplendere, iniziai a piangere silenziosamente. Mi guardò con gli occhi lucidi mentre asciugava con le sue mani le mie lacrime, mi teneva stretta e continuava a baciarmi con dolcezza. In quei momenti capii che la mia vita stava cambiando, che avrei disegnato e colorato insieme a lui i giorni avvenire, togliendo per sempre il grigiore che aveva accompagnato quegli anni della mia esistenza. Andò via con la promessa che mi avrebbe chiamata ogni giorno e che sarebbe tornato il sabato successivo. Ritornai a casa, e ancora scossa dall’emozione, dalla gioia di quell’amore ritrovato, dalla consapevolezza che la mia esistenza avrebbe avuto ritmi diversi e sconosciuti, ripensai ai suoi baci, alle sue carezze, alle sensazioni riprovate che erano identiche a quelle di tanti anni prima, ripensai a quella mattinata trascorsa al bar dove mi raccontò dei posti dove era stato, mi disse che era tornato in Sicilia da qualche anno, che mi pensava spesso, che avrebbe voluto tornare prima, ma temeva che io potessi essere sposata e mai si sarebbe permesso, in quel caso, di turbare la mi vita. Mi raccontava che quando era al nord, per gioco, gli facevano le carte e sempre usciva la figura di una donna lontana e lui immediatamente pensava a me, a quella bambina che le aveva regalato una delle storie più belle, più pulite e sincere che avesse avuto. Non aveva modo di sapere di me e della mia vita, poi un giorno, mentre era in servizio, durante un posto di controllo, fermò una macchina, fece appena in tempo a chiedere al conducente di esibire i documenti che riconobbe due miei compaesani, anche lui fu riconosciuto. Dopo i primi convenevoli, chiese loro di me, risposero che stavo bene e che ero libera da qualsiasi rapporto sentimentale. Lui gli consegno il numero di telefono della caserma dove faceva servizio, chiedendogli di usargli la cortesia di consegnarmelo. Numero che non mi fu mai dato. Pensò, conoscendomi, che anche per il piacere di risentirlo, gli avrei telefonato. Dopo alcuni giorni, non ricevendo alcuna chiamata, decise di venire di persona. Io raccontai del mio lavoro, gli parlai dei miei nipoti, allora piccoli, e del legame che avevo con loro, del mio lavoro e della mia frustrazione per non essere riuscita a realizzare i miei desideri professionali, della mia famiglia e lui della sua, parlavamo di cose vaghe, per le confidenze più intime c’era tempo, sentivamo solo l’esigenza di riprendere un filo interrotto, ma agivamo con pudore, rispettando le nostre sensibilità e i nostri tempi. Avevamo tredici anni di vita da raccontarci e non c’era fretta. Come promesso venne a trovarmi il sabato successivo, volle incontrarmi da sola, aveva qualcosa di importante da dirmi e preferiva che fossimo io e lui da soli. La settimana trascorse velocemente, ogni sera aspettavo la sua telefonata, che puntualmente arrivava e durava ore e ore. Ricordo una meravigliosa canzone di Amedeo Minghi, sigla della prima fiction televisiva trasmessa da canale 5 “Edera”, la sua chiamata spesso arrivava mentre la voce del cantante intonava “Ricordi del cuore”. Mi diede appuntamento alla stazione, scesi dalla mia macchina ed entrai nella sua, ci abbracciamo teneramente e inizio a raccontarmi del suo vissuto, di una storia che lo aveva segnato, ritenne corretto parlarmene subito, com’era giusto che fosse. Mentre parlava, leggevo nel suo viso la sua sofferenza e molta apprensione, provai una stretta al cuore e istintivamente misi la mia mano nella sua bocca e gli dissi: “Basta, è sufficiente ciò che hai detto, quando vorrai sarò pronta ad ascoltarti ancora”, lui mi sorrise grato, si tolse la collana che aveva al collo e la mise nel mio. Raccontai di me e delle mie storie, di una in particolare più importante delle altre. Guardandoci negli occhi, ci siamo messi a ridere pensando che il nostro nuovo viverci sarebbe iniziato raccogliendo i cocci delle nostre macerie. Scherzando gli dissi che sarebbe bastato che lui fosse tornato da me qualche anno prima e ci saremmo risparmiati inutili sofferenze, ma doveva andare così, il disegno era quello. Mi abbracciò stretta, non servivano più le parole, ci eravamo detti ciò che bastava per iniziare con lealtà e sincerità il nostro cammino, per il resto avevamo una vita davanti a noi. La vita ci aveva dato una seconda possibilità e non avremmo permesso a niente e a nessuno di sciuparla, avevamo il dovere di difendere a tutti i costi in nostro ritrovarci, che aveva il sapore antico della prima volta, con la consapevolezza di una nuova maturità scolpita dal tempo e dalle esperienze. Dovevamo riempire tredici anni di vuoto, dovevamo imparare a pensare per due, dovevamo rimanere noi stessi pur consapevoli di essere insieme, dovevamo rispettare i nostri spazi e la nostra libertà per non soffocarci, dovevamo semplicemente unire i nostri cuori e le nostre anime nel rispetto reciproco dei nostri pensieri, in una danza dove due corpi si sarebbero mossi autonomamente, ma avvolti dallo stesso ritmo, avendo cura di volteggiare leggiadri senza mai pestarsi i piedi, di non farsi mai soffocare dall’abitudine e dalla consuetudine, di alimentare giorno dopo il nostro viverci, di avere cura di noi. Abbiamo iniziato insieme a danzare la vita con naturalezza e spontaneità e in poco tempo ci siamo resi conto di aver colmato il vuoto che ognuno di noi due conteneva dentro la propria anima, a riscoprirci e riconoscerci, a bastarci, a viverci, semplicemente amarci, perché l’amore basta all’amore, perché l’amore basta a sé stesso. Il 17 novembre 1991, il giorno suo compleanno, conobbe la mia famiglia, anche se, a parte mio padre, di fatto conosceva già tutti. Dopo qualche giorno mi portò a Palermo a conoscere la sua famiglia, entravamo così ognuno di noi nel mondo dell’altro con naturalezza. A distanza di meno di un mese dal nostro ritrovarci, consegnò tra le mie mani tutto il suo stipendio. Stupita lo guardai mentre mi chiedeva di costudire e gestire suoi risparmi. Fui profondamente toccata da quella fiducia illimitata, misi insieme i nostri risparmi nella prospettiva di costruire la nostra vita insieme. Da lì a poco più di due mesi mi manifestò il desiderio di sposarci, avevamo troppi anni da recuperare, non era necessario attendere oltre, era come se quel tempo trascorso lontani l’uno dall’altro fosse stato colmato, eravamo pronti con il cuore e con la mente. A distanza di soli nove mesi, dal nostro ritrovarci, unimmo le nostre vite, un meraviglioso periodo di preparativi, di attesa, di aspettative gioiose, intristite solo dalle stragi di Capaci e di Via D’Ameglio, che provocarono nel cuore di tutti noi tanta pena, rabbia, dolore e amarezza. 19 luglio 1992, era di domenica. Mi sono svegliata nella mia cameretta, a casa dei miei genitori, quella stessa casa che fino a quel momento era stata anche la mia, ricordo che il mio sguardo fece il giro della stanza e presi coscienza che quella appena trascorsa sarebbe stata l’ultima notte vissuta nel lettino che per tanti anni aveva fatto da sfondo ai miei sogni prima di bambina, poi adolescente e infine da giovane donna che si accingeva a cambiare vita, ad andare incontro al suo sogno di essere moglie e poi madre. Provai un misto di sensazioni che alternavano gioia, emozione, paura, smarrimento, felicità. Sapevo che da lì a poco avrei lasciato quella casa che era stata la mia culla sicura e un punto di riferimento certo per rincorrere un sogno che stava trovando realizzazione. Nel primo pomeriggio, con quello che dopo pochi giorni sarebbe diventato l’uomo della mia vita, partimmo per Palermo. Lasciarmi alle spalle quella casa mi provocò un senso d’infinita pena e malinconia, li ero stata bene. Una mano al volante, mentre con l’altra stringeva la mia, comprese il mio stato d’animo, fermò la macchia e mi abbraccio stretta mentre accarezzava delicatamente i miei lunghi capelli. Subito dopo ripartimmo, man mano mi lasciavo dietro i chilometri quella inquietudine lasciava il posto alla gioia. Giunti a Palermo udimmo le urla disperate di mio cognato che uscendo di casa gridava: “Hanno ammazzato Borsellino, hanno ammazzato Borsellino”. Il senso di totale impotenza s’impossessò di noi e rimanemmo incollati davanti la tv. L’aria era pesante, cupa, parlavamo senza proferire suoni, solo con gli occhi attoniti e increduli. Di lì a pochi giorni si è celebrato il mio matrimonio, esattamente l’indomani del funerale di un grande eroe, e mentre percorrevo la navata della chiesa mi sentii fiera e orgogliosa di calcare lo stesso corridoio di chi aveva dato la sua vita per migliorare la mia. Era il 23 luglio 1992, quel giorno una nuova famiglia nacque sotto la stella dell’amore che illuminava il nostro cammino. Mio padre orgogliosamente mi accompagnò all’altare, era molto emozionato e fiero, mi consegno nelle mani sicure di un meraviglioso uomo che mi promise con il suo “SI” amore, rispetto e protezione, e mentre anch’io pronunciavo il mio “Si” promettevo a me stessa che avrei per sempre avuto cura di quell’uomo bello fuori e dentro. Dopo la cerimonia nella maestosa Cattedrale di Palermo e la festa in un delizioso locale di Mondello, inizio il nostro cammino mano nella mano. Durante la prima notte trascorsa insieme mi svegliai, pensai fra me e me: “Sarò in grado di portare avanti una famiglia?”, provai un senso di smarrimento senza proferire parola, anche lui si svegliò e abbracciandomi forte mi disse: “Non temere, ce la farai, ci sarò io accanto a te, ce la faremo”, in quel preciso momento, ogni paura fu spazzata via, sentii dentro il mio cuore una gioia nuova, la consapevolezza di essere compresa fin dentro l’anima, non sarei stata mai più sola. Sono trascorsi da allora 25 anni che ci hanno regalato, oltre la gioia del vivere insieme, due meravigliose creature che hanno riempito la nostra vita, completando il vero senso della nostra unione. Adriana Vitale