Tante storie magiche
Calcestruzzo di famiglia.
Dopo l’ultimo giro di chiave nella toppa, la borsa fu serratamente perlustrata.Scandagliai ogni tasca finché non trovai sul fondo il briccone telecomando dell’auto. Ero in partenza. Dovevo dirigermi a Castelletto, una pittorica frazione di Brenzone sul Garda.
Mi ero concessa dieci giorni solitari e lontani dalla gazzarra veronese che assordiva i miei timpani, bramosi di sonora assenza. Partii con un flebile entusiasmo ma decisa a schiaffeggiare il routinario tedio. Un rigenerante tragitto mi avrebbe scollegata dall’urbana frenesia per poi mettermi in contatto con il lacustre paese. Impostai il navigatore per immettermi sulla SR249 gardesana orientale. Avrei seguito la via che sfiora la sponda del lago. Bordeggiando i fianchi dell’idrico bacino, sentivo allentarsi la morsa della soffocante abitudine.
Appena potevo rallentavo la marcia, così la mente, staccata dal corpo attaccato alla cintura di sicurezza, esplorava i nascosti anfratti. Riuscii a deglutire il nebuloso groppo dei miei tormenti appena scorsi la coriacea prominenza dei vasti terrazzamenti dei longevi ulivi. Scorrevano i chilometri tracciati da tortuosi tornanti. Lambiti da una costa sia moderna – con alberghi e attrezzati campeggi – sia selvaggia. Uno stato brado che rendeva il lago un selvatico ristoro.
Rapita dalla distesa d’acqua dolce, ammucchiavo alla rinfusa nei miei pensieri i propositi d’attuare nel soggiorno lacustre. Quando si ammutolì il navigatore capii di essere giunta al numero civico che ansiogena avevo digitato prima di avviarmi. Lo ricordavo ancora. Accostai l’auto e scaricai, con l’anima affannata, il mio leggero bagaglio. La casa familiare delle vacanze estive mi accolse impietosa, dischiudendo una dolente ferita. Una profonda lacerazione non medicabile con un cerotto né tamponabile con una sterile garza. A sanguinare era il mio cuore. Con un surplus di battiti mi suggeriva di risalire in macchina. Ebbi l’impressione di non riconoscere l’estranea massa di cemento che sporgeva dal cancelletto.
Non era un vuoto di memoria. La genitoriale abitazione era stata nettamente ristrutturata. Nessuna impresa edile mi aveva mai contattato. Pochi secondi per riflettere sull’ingegnoso muratore. <<Sarà stato il perenne giudicato>>, pensavo. Con l’animo inquieto iniziai a soppesare i momenti successivi al taglio del cordone ombelicale. Sin dal primo vagito si è sempre messo in discussione il mio gemello. Due eterozigoti non complici ma competitivi. Per mio fratello la sua esistenza sconfinava nel vittimismo: io occupavo più spazio nel grembo materno sguazzando nel liquido amniotico mentre lui annaspava in un angolo.Una volta nati, io ero nutrita direttamente da mamma sfoggiando una spugnosa tutina, lui trasandato con lo storto biberon nella tremante mano di nonna. Diverso era anche l’approccio visivo con i parenti. Zii e cugini fissavano compiaciuti i miei paffuti lineamenti mentre lo sguardo del trascurato neonato vagava nella culla. Dal suo martire punto di vista la puerile disparità di trattamento ha caratterizzato ogni fase della condivisa crescita. Per il suo egocentrismo, per il suo desiderio di affermazione individuale io ero semplicemente di troppo. Mi colpevolizzava della sua esistenza che valutava a metà, non interamente sua. Un gemello che mi ripudiava. Avrebbe voluto essere figlio unico. Lo intuivo quando da bambini si spingeva, da solo, sull’altalena. Una gommosa ruota che oscillava dal ramo del castagno. Un chiomoso albero piantato dal vicino contadino che in autunno, accordandosi con mio padre, ne raccoglieva i frutti, racchiusi nei pungenti ricci. Spesso prima di Natale ci spediva una confettura di marroni.
Ero sicura dell’astio celato ma nel contempo palese negli anni che si rincorrevano. Già al liceo i rapporti si congelarono. Nessuna interazione. Nessuna forma di effusione. Tristemente divenni conscia della sua incapacità di volermi bene. Si imbruttiva in ogni parola pronunciata per me e in ogni gesto compiuto nei miei confronti. Una diversità interiore che si rifletteva sul differente aspetto esteriore. Io ho sempre suscitato carezze per la delicata forma del tondeggiante viso. La gente del posto mi intonava un complimentoso ritornello: “MARIBELLA SEI BELLA COME UNA REGINELLA”.
Da ragazzina avevo un’ampia fronte con una giuntura di capelli setosamente ondulati, sfumati dal biondo scuro se baciati dall’estivo sole della riviera. Uno sguardo non intenso ma a pesce lesso ed unico perché caratterizzato da un bisticcio cromatico. L’occhio destro brilla di verde smeraldo. Quello sinistro è tinteggiato da una macchiolina scura. Un segno particolare trasmesso da mio nonno. Invece Giulio era il riccioluto di casa. Arrotolati ricci addolcivano le linee marcate e spigolose della sua bella faccia. Richiedeva impegno reggere il suo tagliente sguardo dalle lunghe ciglia. Gli occhi non rispecchiavano la sua anima poiché non lasciavano trasparire alcunché del suo costrutto emotivo. Oggettiva la distanza tra la mia esile costituzione – con spalle dritte e piedi snelli – e la configurazione corporea del riccioluto. Fisicamente possente con spalle larghe per le gare di nuoto al lago.
Soprattutto irrobustiva il suo virulento temperamento quando dalla paesana piazzetta, a bassa quota, si inerpicava sullo scosceso pendio del monte Baldo. Sembrava un animale da soma che trainava un tempo la tipica caréta, la lignea slitta dei locali fattori ricolma di prodotti stagionali. Senza perdere aderenza, Giulio era inarrestabile nell’arrampicata e senza freni nella discesa nonostante siano ancora visibili gli originari ganci d’arresto conficcati nella roccia. Il vero tratto che lo distingueva andava ricercato all’estremità delle sue braccia: erano le mani. Talmente curate da impreziosire perfino una costosa collezione d’orologi. Se per strada gli veniva chiesta un’informazione, era facile distrarsi per il suo indice più persuasivo di una segnaletica. Ma il riccioluto era ostile al contatto fisico. Addirittura si ritraeva difronte al saluto con una formale stretta di mano.
Accadde una sera d’inizio settembre, prima del nuovo anno scolastico, proprio nella stregante casa estiva vicino al porticciolo. Successe quando ormai dalla sua folta barba si intravedeva ben poco del suo pronunciato mento. Con durezza ci rese partecipi della sua ferrea decisione di interrompere gli studi. Doveva trovare la sua strada. Le mattine sui banchi di scuola essicavano il suo estro creativo. Senza avere la possibiltà di replicare o afferrarlo per un braccio chi lo diede alla luce lo perse nel buio un attimo dopo. Fulmineo aprì la porta e scomparve.
A distanza di 17 anni non ricordavo nemmeno il tono della sua voce, dimenticanza favorita dalla mancanza di dialogo nel periodo in cui vivevamo sotto lo stesso tetto. I miei anziani genitori dopo mesi passati a cercarlo divorziarono, trafitti dall’ingrato distacco di Giulio. Varcato il cancelletto mi incamminai sul ciottoloso vialetto. Focalizzai la casa nel suo insieme. Niente. Non riconoscevo né la facciata frontale né la schiera di tegole a tufo dello spiovente tetto. Ma avevo riconosciuto la sua impronta. Su ogni mattone un solo marchio di fabbrica: il polpastrello del riccioluto. Giulio era un elemento ridondante di quell’immobile come una fondamenta. La staticità che apaticamente permeava la sua mente si riversò in una propositiva dinamicità, finalizzata alla ricostruzione dell’abbandonato stabile. Le sue mani, impensabili screpolate e ruvide, come resistenti pilastri avevano retto qualsiasi cedimento. All’esterno bloccò le pericolanti finestre rafforzando gli arrugginiti infissi. Non avendo la chiave per la nuova serratura fantasticavo sulle modifiche interne e numeravo mentalmente gli eventuali aggiustamenti: -avrà spazzato via la parete divisoria tra soggiorno e cucina, meglio se comunicanti in una raccolta unità abitativa. -avrà potenziato l’impianto d’illuminazione della stanza più scura: l’ubriaca cantina con i pregiati vini. -avrà apportato modifiche parziali alla nostra camera: il letto a castello sarà stato assediato ed espugnato.
Quando mi trovai sull’uscio, invano abbassai la dorata maniglia. Non ebbi la lucidità di premere il campanello, ma sferrai una serie di piccoli colpi alla porta in modo che chiaramente percepisse la mia rancorosa presenza. Impuntando i piedi sullo zerbino, grintosa urlai: <<Riccio non puoi scappare di nuovo…>>
Non ebbi il tempo di finire la frase che la porta si schiuse lentamente, come se qualcuno titubante non volesse mostrarsi. Mi aspettavo di incrociare lo sguardo di Giulio. Non incrociai un bel nulla, eppure sulla soglia non ero sola, qualcuno mi osservava.
Mentre stavo per indietreggiare le mie orecchie udirono qualcosa di meravigliosamente curativo per il mio affranto cuore: <<Papà c’è zia Maribella.>> E poi la mia ridente nipotina aggiunse: << Hai ragione è proprio bella come una reginella, mi somiglia davvero tanto!>>