Tante storie magiche
Il cliente del sabato – Scritto da Matteo Capitini e T.M.S. Arcangeli
Era una giornata di sole tipicamente autunnale e le foglie secche arredavano la strada poco movimentata sulla quale camminavo. Il cielo, in quei giorni, era davvero stupendo, di un colore blu quasi accecante. Mi piaceva passeggiare in giornate così e sentire l’odore boschivo di terra umida. Il mio appuntamento era fissato per le sedici e arrivai con un anticipo di circa quindici minuti. La sala di attesa della Dott.ssa Labaki era ben arredata e ventilata. Dalla finestra riuscivo a vedere alcuni alberi di limone che abbellivano grandi vasi di terracotta. La segretaria, che rispondeva al telefono con fisionomia impegnativa, mi fece un cenno veloce con il capo. C’era soltanto una donna in quell’ambiente e lei era comodamente seduta su una poltrona vintage in rattan con un ampio schienale. Ero sicura di aver già visto quella poltrona da qualche parte, ma non riuscivo a ricordare dove. La donna era incinta, mi sembrava in procinto di partorire e sorrideva mentre sfogliava una rivista dedicata alle future mamme. Sembrava felice di trovarsi lì. Avevo conosciuto la Dott.ssa Labaki durante una cena tra amici. In quella serata estiva, avevamo parlato di tante cose diverse, ma in special modo dei nostri viaggi. Le avevo raccontato che mi piaceva visitare le città in cui una volta avevano vissuto i miei scrittori preferiti. Lei, a sua volta, mi parlò di tutti i posti che ebbe la fortuna di visitare mentre partecipava a congressi ed eventi per motivi di lavoro. Venivamo e appartenevamo a città e culture diverse. Ero cresciuta in una famiglia piccola, mentre lei proveniva da una famiglia numerosissima. Nonostante il divario culturale e geografico, diventammo amiche. Mi trovavo lì perché lei mi aveva chiamato di notte con una voce tremolante. Mi era sembrata addirittura un po’ rauca. Mentre aspettavo, notai che sul tavolino c’era un piccolo libretto giallo di Simenon intitolato ‘Maigret e il cliente del sabato’. Ecco, anche Simenon era uno dei miei scrittori preferiti. Alzai lo sguardo per incontrare l’orologio grigio sulla parete dietro l’ampia scrivania della segretaria. Era fermo alle due e venti. Evidentemente qualcuno doveva essersi dimenticato di cambiare le pile. Controllai il mio orologio da polso. Un nuovissimo Esprit al quarzo in oro che mi avevano regalato i miei colleghi per la mia recente promozione. Indicava le quindici e cinquanta. Rimanevano ancora dieci minuti al mio appuntamento. Aprii il libretto di Simenon con l’intenzione di leggerne le prime pagine. Non avevo ancora letto quel romanzo. Con un gesto distratto lo chiusi dopo pochi secondi. Non avevo la mente sgombra. “Passa da me in ambulatorio. Sabato alle sedici. Ti aspetto”. Non volevo ammetterlo a me stessa, ma la voce incerta della Dott.ssa Labaki mi aveva turbata. Perché mai la sua voce era così diversa quella notte? Sembrava appartenere ad un’altra persona. Perché mi aveva chiesto di raggiungerla in ambulatorio? Non aveva specificato nulla a riguardo. “Ti dirò tutto sabato” si era limitata a dire con una voce ancora più aspra di prima. In quella sala di attesa, così luminosa e accomodante, quella voce riechieggiava in modo sinistro nella mia testa. Non disponevo di alcuna evidenza per crederlo, ma avevo la netta sensazione che non presagisse niente di buono. Consultai frettolosamente il mio orologio. Le quindici e cinquantasei. Meglio così. Tra qualche minuto avrei parlato con la mia amica e avrei avuto delle risposte. Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo, emettendo involontariamente un stridulo lamento. Nel silenzio che dominava la sala d’attesa, ero certa che la segretaria e la donna incinta si sarebbero girate verso di me o comunque che avrebbero udito quel suono. Ma non si girarono, né reagirono in qualche modo. Davano stranamente l’idea di non essere al corrente della mia presenza. Che idea stupida, pensai, minimizzando con un mezzo sorriso che tradiva un certo nervosismo. Non più di qualche minuto prima la segretaria mi aveva chiamato con un cenno del capo. Era logico che mi avesse notata e poi avevo un appuntamento per le sedici. La segretaria alzò la cornetta di uno dei tre telefoni che aveva davanti. “La Dott.ssa Labaki la attende. Prego. L’accompagno” annunciò con voce preimpostata, quasi recitando un noioso motivetto. Mi alzai frettolosamente dalla poltrona e notai che la donna incinta mi imitava, si muoveva esattamente come me. “Eccomi. Solo un momento” rispose lei in tono sbrigativo. “Mi scusi” replicai io pacatamente, ma con un leggero cipiglio che esprimeva tutta la mia perplessità. “Ho un appuntamento fissato con la Dott.ssa” aggiunsi. Nulla. Non accadde nulla. La donna incinta fece un passo verso il corridoio preceduta dalla segretaria. “Scusate, il mio appuntamento?” chiesi alzando un po’ la voce. Nulla. Era come se non fossi lì. Come se stessi guardando la scena davanti a me dal vetro opaco di un oblò senza poter intervenire, senza che loro potessero vedermi. La mia irritazione cresceva. La voce rauca della Dott.ssa Labaki riprese a perseguitarmi. Ora la sentivo sempre più nitida come se quella voce strozzata appartenesse a me. Le due donne erano ormai arrivate a metà corridoio. All’improvviso un pensiero disturbante prese forza, sgomitando nella mia testa fino a diventare preponderante: e se la segretaria non avesse mai rivolto a me quel cenno? Se non ne fossi stata io la destinataria, ma, invece, la donna incinta? Sentivo che l’equilibrio e la razionalità dei quali da sempre andavo fiera mi stavano abbandonando. Si erano ridotti a una luce fioca e morente sullo sfondo di un caos generato da pensieri disordinati e irrazionali. Mi venne in mente una celebre opera di Francisco Goya ‘Il sonno della ragione genera mostri’. “Sono la signora Bushey!” gridai con una voce isterica che non pensavo di possedere. Una lacrima calda cominciò a solcare la mia guancia sinistra. “Sono io! Margie! Ho un appun – ta – mehento con… con la Do – Dotto – esa Sami La – Labachi. Sami, so-o i-o!” gridai. Ma la mia voce strapazzata dal pianto rendeva le mie parole quasi incomprensibili. Ero paonazza. Urlai con tutte le mie forze. Buio. Potevo solo vedere la spia rossa dell’orologio digitale che informava che la sveglia era stata puntata. La mia stanza era completamente avvolta nell’oscurità. Con un gesto rapido riuscii a trovare l’interruttore accanto alla abat-jour a sfera che avevo riportato da Bordeaux. La luce che si accese dal lampadario che dominava il soffitto era una lama negli occhi. Folgorante come il faro di un elettrotreno che sferza il buio di una campagna sonnacchiosa. Fu quella luce, dapprima disturbante, ma poi rassicurante e rivelatrice, ad informarmi che si trattava di un sogno. Tirai un sospiro di sollievo. Sbirciai l’orologio digitale. Le due e venti. La mia mente mi riportò subito al sogno dal quale mi ero appena destata. Le due e venti. Anche l’orologio della sala di attesa della Dott.ssa Labaki indicava le due e venti. Mi sforzai di allontanare quel pensiero. Mi convinsi che si trattava solo di una coincidenza fine a se stessa quando il telefono della linea fissa in salotto squillò. Fui sorpresa da un sussulto, assorta com’ero nel silenzio di quei pensieri. Raggiunsi lentamente il telefono. Alzai la cornetta e la portai all’orecchio. “Sì!? Chi parla?” chiesi titubante. Dall’altro capo del telefono una voce assai familiare disegnò un’espressione sbigottita sul mio volto. “Ciao Margie, sono Sami. Perdona l’orario…” disse la Dott.ssa Labaki. Ero paralizzata. Nemmeno risposi a quel saluto, né le chiesi per quale motivo si era disturbata di chiamarmi nel cuore della notte. Sapevo già quello che avrebbe detto di seguito. “Passa da me in ambulatorio. Sabato alle sedici. Ti aspetto.” continuò lei, con voce tremolante e un po’ rauca.