Tante storie magiche
Santuzza – di Raffaella Legname
L’immagine di Santuzza ritta in piedi sulla porta del soggiorno mi folgorò la prima volta che la vidi: pelle olivastra, labbra carnose di ciliegia e capelli neri ondulati che le incorniciavano il viso e le scendevano sulle spalle come in un abbraccio. Aveva indosso un abito di cotone stampato a fiori che ne evidenziava le forme sinuose: vita stretta, addome piatto e fianchi rotondi, e un seno di quelli piccini che stanno nel palmo di una mano.
Quando avanzò di qualche passo per presentarsi ai miei zii, nella casa di via Crescenzio nella quale avrebbe prestato servizio e dove vivevo io come ospite dall’estate precedente, notai che anche le gambe erano ben fatte, e credo che lo notò anche mio zio, l’avvocato Spampinato, ‘terrone’ come me ma che ormai da più di vent’anni esercitava con successo la sua professione nella Capitale: e nonostante fosse (o si sforzasse di essere) consapevole del contrario, dei siciliani aveva conservato l’inflessione dialettale molto marcata e tutte quante le abitudini più o meno negative, comprese quelle che avevano fatto pentire zia Rosalia di averlo sposato, prima fra tutte l’eccessiva sensibilità al fascino femminile che in quel momento, in presenza di Santuzza, stava raggiungendo una delle sue massime espressioni.
Santuzza aveva proprio tutte le carte in regola per fare esclamare al suo passaggio “Bedda matri!” agli uomini e “Bottana!” alle donne. E forse era proprio questo che stava pensando mia cugina Angelica, che seduta sulla poltrona di velluto verde in cui era solita rilassarsi la nostra defunta nonna, fingeva di essere impegnata nel ricamo del suo corredo per guardare di sottecchi la nuova cameriera.
Il sole di quel pomeriggio illuminava il viso grassoccio di mia cugina, le sue labbra, contratte in una smorfia mista tra il disappunto e l’invidia, sormontate da una folta peluria nera e prive di qualsiasi forma di sensualità, e parte del suo corpo, privo invece di qualsiasi forma.
Mentre tutta la famiglia era impegnata ad osservarla, Santuzza abbozzò un leggero sorriso, e per un attimo ebbi l’impressione che mi avesse rivolto un’occhiata più lunga del dovuto. Ma forse era solo una mia fantasia. Zia Rosalia la guardò da capo a piedi, e come si conveniva alla moglie di un facoltoso avvocato, le si rivolse con sufficienza:
“Che fai lì impalata con la valigia in mano? – le disse – poggiala in terra!”
Credo che mia zia fosse indispettita dalla sua bellezza. Non solo per come zio Salvatore la guardava, ma anche per la differenza abissale che c’era tra lei e la povera Angelica, unica figlia, della quale iniziava a pensare che sarebbe rimasta zitella nonostante la ricca dote, il prestigio della famiglia da cui proveniva e il prezioso corredo di cui andava orgogliosa.
Zia Rosalia batté energicamente le mani e chiamò Annarella, la governante:
“Annarella, per favore, fai vedere la casa a Santuzza, mostrale quello che c’è da fare e poi accompagnala nella sua stanza!”
Annarella, una sessantenne pingue e dal passo stanco si affacciò sull’uscio e chiamò a sé Santuzza, che prese di nuovo la valigia e la seguì in giro per casa Spampinato ascoltando in maniera meticolosa le indicazioni della governante e di tanto in tanto annuendo timidamente.
Nessuno in casa era tenuto a sapere perché Santuzza fosse stata chiamata a lavorare a Roma dalla Sicilia, tantomeno io che venivo ospitato durante il periodo scolastico: finite le scuole medie, che avevo concluso con profitto, era stato lo stesso zio Salvatore ad insistere con mio padre perché frequentassi il ginnasio e il liceo a Roma per poi andare a studiare legge all’università: qualcuno avrebbe dovuto un giorno ereditare lo studio Spampinato, e Angelica non era la persona più adatta, prima di tutto perché nel 1958 una donna doveva incontrare un buon partito e poi stare a casa e fare famiglia, e poi perché a detta di mio zio non possedeva quell’intelligenza brillante che le avrebbe permesso di eccellere negli studi nell’eventualità avesse deciso di iscriversi a una qualsiasi facoltà.
“Come prima più di prima t’amerò per la vita la mia vita ti darò
sembra un sogno rivederti accarezzarti le tue mani nelle mani stringere ancor
Il mio mondo tutto il mondo sei per me a nessuno voglio bene come a te
ogni giorno ogni istante dolcemente ti dirò come prima più di prima t’amerò
Come prima più di prima t’amerò per la vita la mia vita ti darò
ogni giorno ogni istante dolcemente ti dirò come prima più di prima t’amerò”
Santuzza rassettava la casa e cantava con voce d’angelo: era un mese e mezzo che aveva preso servizio in casa Spampinato e quando in casa non c’era nessuno e Annarella era in giro a fare la spesa ascoltava il disco di Tony Dallara mentre sbrigava le faccende domestiche: io ero l’unico a sapere di questa sua passione per la musica e mi guardavo bene dal dirlo a qualcuno della famiglia. Santuzza aveva solo 17 anni e a differenza di tante ragazze della sua età, compresa Angelica che la detestava e per la quale ogni occasione era buona per umiliarla, viveva già una vita molto difficile, lontana da casa e dall’affetto dei suoi cari in una città e in un momento storico in cui la gente del sud non veniva ancora vista di buon occhio.
Chissà chi era la persona per cui Santuzza avrebbe dato la sua vita per la vita, chissà per chi cantava sulle note di Tony Dallara: forse in Sicilia aveva un fidanzato, e probabilmente il suo lavoro in casa Spampinato le serviva per farsi un po’ di dote, chi poteva saperlo… ogni giorno che passava diventavo più curioso, e mi dicevo che, prima o poi, le avrei chiesto qualcosa al riguardo.
La domenica mattina la famiglia Spampinato andava a messa, mentre Annarella restava in casa a preparare il pranzo che in quel giorno per espressa indicazione di zia Rosalia doveva essere particolarmente ricco e raffinato e le cui portate dovevano variare di settimana in settimana: fu proprio in una di queste domeniche che mio zio Salvatore decise di invitare a pranzo un praticante del suo studio, un certo Edoardo Spinelli, fresco di laurea e che a suo avviso poteva essere un potenziale marito per Angelica.
Mia cugina aveva perso tutta la mattina a farsi bella, aveva indossato un abito molto costoso che aveva acquistato in una boutique di via Cola di Rienzo e il cui modello ricordava un tubino Givenchy che aveva visto ad Audrey Hepburn in una rivista.
Inutile dire che Angelica con quel vestito indosso non solo non somigliava ad Audrey Hepburn, ma sembrava una colonna informe avvolta da uno straccio. Mi chiesi come facevano i miei zii a pensare che qualcuno potesse interessarsi a lei, visto poi che mia cugina non era né intelligente né tantomeno simpatica; o forse semplicemente speravano di trovare qualcuno interessato al suo patrimonio che la affrancasse, finalmente, dal suo stato di zitella senza speranza dedita al ricamo e talvolta al pianoforte.
Edoardo Spinelli era atteso con trepidazione a casa Spampinato, dove per l’occasione la tavola era stata imbandita con la preziosa tovaglia di Fiandra che zia Rosalia aveva ricevuto in regalo dalla nonna materna e che conservava gelosamente riservandola alle grandi occasioni: stessa cosa per l’argenteria, che aveva fatto lucidare pezzo per pezzo alla povera Santuzza, controllando meticolosamente che non vi fossero macchie, sotto lo sguardo compiaciuto di Angelica che gioiva con perfidia ogniqualvolta la bella cameriera veniva schiavizzata oltre misura.
Santuzza era una gran lavoratrice, ma soprattutto era molto paziente e, moderna Cenerentola, spesso passava sopra alle angherie di zia Rosalia e di Angelica.
Quel giorno le due arpie avevano obbligato lei ed Annarella ad indossare la livrea perché Spinelli era un ospite importante e come tale andava onorato.
Edoardo Spinelli, capelli rossi e volto coperto di efelidi, si presentò all’una in punto, con un vassoio di paste di Riccomi, una pasticceria che aveva aperto da poco a Roma ma di cui tutti parlavano molto bene. Inutile dire che quando zia Rosalia chiamò Santuzza perché le portasse in cucina, l’ingresso della fanciulla sembrò fermare il tempo per un attimo. Spinelli rimase di sasso, incantato di fronte a quella bellezza mediterranea e sfrontata, e ne seguì con lo sguardo la figura sensuale mentre si allontanava con passo deciso. Mia cugina Angelica divenne verde dalla rabbia, e anche mia zia, sebbene fosse più abile della figlia a mascherare gli stati d’animo. Zio Salvatore per togliere tutti d’impaccio, in particolare colui che sperava divenisse suo genero, esortò tutta la famiglia ad accomodarsi in sala, dando inizio ad un pranzo tanto ricco di portate e convenevoli quanto noioso e infruttuoso.
Qualche giorno dopo dalle grida forsennate di mia cugina, che riuscii ad udire chiaramente sebbene fossi nella mia stanza, al piano di sopra, realizzai che non solo Edoardo Spinelli non aveva nessuna intenzione di sposare Angelica, ma che aveva confidato a mio zio di essere interessato alle grazie di Santuzza.
Lo zio aveva mentito dicendo che la ragazza era già promessa sposa a un operaio siciliano, e devo dire che questa piccola bugia fece piacere anche a me, che mi ero accorto di quanto giorno per giorno Santuzza stesse prendendo un posto speciale nel mio cuore.
Avevo solo 15 anni, due meno di lei, ma se solo si fosse accorta di me sarei stato pronto a tutto pur di diventare il suo fidanzato. Santuzza spesso mi sorprendeva a guardarla di nascosto, e ricambiava i miei sguardi con sorrisi che mi illuminavano il cuore.
Ma ben presto mi resi conto che in casa Spampinato non ero la sola persona che guardava Santuzza di nascosto: accadde un giovedì pomeriggio. Annarella aveva la giornata libera, zia Rosalia e Angelica erano andate in cerca di stoffe per il corredo e matassine da ricamo nel quartiere ebraico. Io ero nella mia stanza intento a tradurre una versione di Platone che mi stava facendo dannare l’anima; la primavera stava arrivando in anticipo, era un pomeriggio insolitamente caldo e tre ore di studio filato mi avevano messo addosso un’arsura tale che avevo deciso di scendere in cucina per bere qualcosa.
Santuzza era intenta a lavare piatti e bicchieri, e non si era accorta che nella stanza era entrato mio zio: aveva la stessa espressione di un lupo affamato, le si avvicinò di soppiatto e l’abbracciò da dietro, palpandole con una mano un seno mentre con l’altra l’attirava a sé:
“Stai buona, bedda, stai buona e zitta…” mormorava ansimando mentre Santuzza cercava di divincolarsi con forza, pallida in viso per lo spavento, e incapace di urlare. Riuscii ad entrare in cucina prima che le potesse succedere qualcosa di brutto.
Mio zio si allontanò immediatamente dalla sua ‘preda’:
“Stavamo scherzando… vero Santuzza che stavamo scherzando?”
La ragazza, il cui viso stava riprendendo colore dopo lo scampato pericolo, si ricompose e si aggiustò i capelli, dopodiché lasciò la stanza rivolgendomi un’occhiata complice e mormorandomi ‘Grazie’ con un filo di voce.
Guardai mio zio:
“Ma che cosa volevi fare?” gli chiesi.
E lui, fissandomi con sguardo torvo:
“Se ci dici qualcosa a tua zia o a tua cugina fai una brutta fine. – e poi, non ancora soddisfatto – La colpa è sua. Santuzza è bedda. E io sugnu masculu.”
Mi chiesi con che faccia avrebbe potuto affrontare il resto della famiglia la sera, a cena, invece con un aplomb di cui mi stupii fece come se non fosse successo niente, anzi nei confronti di Santuzza si mostrò molto gentile e accomodante, forse temendo che la ragazza potesse parlare.
Da parte mia, avevo deciso che l’avrei tenuta costantemente d’occhio, e non l’avrei mai più lasciata sola in balia di un porco del genere. I giorni passarono veloci, aprile finì in un baleno e iniziò un maggio davvero speciale, con giornate dal cielo azzurro e terso e un clima piacevole che mi faceva apprezzare ogni giorno di più la città di Roma, tanto diversa dalla mia Sicilia ma altrettanto bella e interessante. La sera mi piaceva lasciare la finestra aperta ed osservare la gente passeggiare per la strada, con le luci dei lampioni che illuminavano via Crescenzio come stelle sospese tra i palazzi. Vedevo le coppie di innamorati camminare insieme e pensavo a quanto sarebbe stato bello se tra di loro, un giorno, avremmo potuto passeggiare anche io e Santuzza.
Le avrei dato il braccio e sarei stato orgoglioso di averla accanto, di vederla sorridere e di sentire più da vicino il suo profumo di lavanda che mi inebriava ogniqualvolta si aggirava indaffarata per la casa. Poi pensavo che finite le scuole sarei dovuto tornare giù, dai miei, e mi preoccupava il fatto di lasciarla sola per tre mesi tra le grinfie di mio zio.
Dopo l’episodio della cucina, si era creata tra di noi una sorta di complicità che pareva via via consolidarsi, e più di una volta, prima di andare a dormire, ci eravamo soffermati a chiacchierare sul corridoio: le nostre stanze erano piccole e poste l’una di fronte all’altra. Ero il nipote ‘povero’ quindi ero stato relegato nell’ala destinata alla servitù. I miei zii dormivano invece in un’altra zona della casa, in una camera molto grande, accanto alla quale era la stanza di Angelica. Nonostante le stanze degli Spampinato fossero a una certa distanza dalle nostre, Santuzza mi aveva raccontato di essersi accorta che Angelica più di una volta aveva frugato tra le sue cose, e che probabilmente lo aveva fatto durante il giorno, mentre lei faceva i servizi. E visto che non aveva trovato niente di cui sparlare con zia Rosalia, tanto per farle una cattiveria le aveva spaccato in due il disco di Tony Dallara che Santuzza teneva nel secondo cassetto del comò. Ecco perché non lo aveva più ascoltato.
Una mattina all’uscita da scuola coi pochi spiccioli che avevo glielo ricomprai, ed entrando di soppiatto nella sua stanza glielo feci trovare sul comò, accompagnato da una rosa rossa e un biglietto con su scritto:
“Per te, Santuzza, per sentirti cantare di nuovo COME PRIMA”.
Era la prima volta che facevo qualcosa di simile per una ragazza, e il cuore mi batteva all’impazzata. Ora dovevo sperare solo che quell’arpia grassa e baffuta di mia cugina non se ne accorgesse: per fortuna Angelica, a cui non sfuggiva mai niente, in una delle sue visite pomeridiane nella stanza di Santuzza notò soltanto la rosa, che la ragazza aveva messo in un vaso di peltro. Del disco e del biglietto nessuna traccia, forse Santuzza li aveva nascosti bene in modo tale da evitare nuove ritorsioni da parte di quell’impicciona.
Una giorno, mentre eravamo a tavola, Annarella stava servendo il pranzo, aiutata da Santuzza:
“Ottima questa pasta alla Norma, Annarella – disse mia zia alla governante – mi piacciono queste tue variazioni in cucina.”
“Veramente, signo’ – rispose Annarella nel suo spiccato accento romano – la pasta l’ha cucinata Santuzza… ha visto che brava?”
Santuzza arrossì abbassando lo sguardo, e mia zia quando seppe che era stata proprio lei a cucinare parve pentirsi di quel complimento.
“Complimenti Santuzza – intervenne Angelica con un sorriso ironico stampato sulle labbra e una punta di cattiveria nella voce – la tua cucina andrebbe premiata con una rosa rossa!”.
Santuzza trasalì, e per l’emozione inciampò nel carrello portavivande tanto da farlo traballare, riuscendo però a non cadere.
“Che c’è Santuzza – continuò acida mia cugina – ho detto qualcosa di sbagliato?”
Santuzza non rispose e tornò in cucina con Annarella.
“Finiscila di fare la cretina! – intervenne brusco mio zio – dici sempre baggianate!”.
Angelica aveva detestato Santuzza fin da quando questa aveva messo piede in casa Spampinato. Ma da quando si era accorta che qualcuno in casa aveva un debole per ‘la serva’ come amava chiamarla con fare sprezzante, e che quel qualcuno ero io, aveva iniziato una vera e propria crociata nei suoi confronti; dopo che Edoardo Spinelli l’aveva elegantemente rifiutata mostrandosi più interessato a ‘…quella graziosa fanciulla che lavora in casa da voi, avvocato Spampinato…’ aveva dirottato la sua attenzione su di me, forte del fatto che ‘…al sud spesso ci si sposa anche tra cugini’ come mi aveva detto una volta parlando di certi nostri paesani, forse per farmici pensare.
Ogni occasione era buona per passare un po’ di tempo insieme a me: farsi accompagnare a comprare le matassine da ricamo, andare in libreria per l’ultimo romanzo di Delly (“…piattume per donnicciole mascherato da romanzo!” le aveva detto una volta e con ragione mio zio quando l’aveva sorpresa intenta nella lettura), al negozio di musica per nuovi spartiti musicali… inutile dire che accorgersi che anch’io avevo subito il fascino sensuale e mediterraneo di Santuzza per lei era stato davvero un colpo duro.
Lei, la figlia dell’avvocato Spampinato, una fanciulla in età da marito e con una dote che avrebbe fatto gola a molti vedeva sfumare davanti a sé tutte le occasioni di diventare una sposa e una madre felice per colpa di quella stracciona entrata all’improvviso in casa sua e sul cui passato nessuno in famiglia pareva sapere nulla! Aveva iniziato a controllarla in maniera meticolosa, quasi paranoica, a frugare nella sua stanza proprio per trovare ‘quel’ qualcosa, ‘quel’ pretesto che avrebbe costretto i miei zii a cacciarla e a rispedirla in Sicilia, lei, il disco di Tony Dallara e la sua valigia piena di stracci.
Visto che i presupposti non c’erano, Angelica un giorno decise di inventarseli di sana pianta. Mia zia Rosalia conservava gelosamente in un portagioie un monile, un corallo finemente inciso che raffigurava il volto del sole circondato da tanti raggi in oro giallo. Era un regalo di zio Salvatore, lo avevano comperato a Torre del Greco tanti anni prima, in viaggio di nozze. Mia cugina lo prese e lo nascose nel cassetto della biancheria di Santuzza, chiamando poi a raccolta tutta la famiglia e la servitù urlando come una forsennata e dandole della ladra:
“Ti ho vista, lurida schifosa, rubare la collana di mia madre!” le disse a voce alta puntandole il dito contro.
Santuzza era fuori di sé dalla disperazione, non riusciva a smettere di piangere, e si era inginocchiata davanti a zia Rosalia implorando di crederle:
“Io non rubai niente alla signora Rosalia, ve lo giuro, ve lo giuro sulla buonanima di mia madre!!!”
“E allora controlliamo nella tua stanza!” disse zia Rosalia, entrando in camera di Santuzza e iniziando la sua opera di perquisizione. L’armadio era praticamente vuoto, nel comodino c’era un rosario, la Bibbia e un libro di poesie di Emily Dickinson. Angelica invece andò diretta al cassetto della biancheria, e iniziò a frugare meravigliata di non trovare nulla.
“Ma non è possibile… giuro che…” mormorò tra i denti.
“Giuri che l’avevi messo sotto la camicia da notte, cara cugina?” le dissi tirando fuori la collana dalla tasca dei miei pantaloni.
Angelica divenne pallida come uno straccio.
“Che Santuzza non ti sia mai stata simpatica è stato sempre palese… – le dissi – ma farla passare per ladra per farla cacciare mi sembra un tantino esagerato.”
Porsi il monile a zia Rosalia, che assisteva alla scena allibita:
“Zia, ho visto io stesso Angelica prendere la tua collana dal portagioie e metterla nel cassetto della biancheria di Santuzza. Se in questa casa c’è una persona cattiva e disonesta non è certo la cameriera.”
Se fossi stato al posto di mia zia avrei preso a schiaffi Angelica: ma zia Rosalia si limitò a dire che tutto si era risolto nel migliore dei modi, esortando la figlia a tornare di sotto e rispedendo la servitù a lavorare, senza minimamente scusarsi con Santuzza per aver dubitato di lei.
“Grazie. Grazie davvero!” mi disse Santuzza abbracciandomi forte quando restammo soli nel corridoio.
“Lo so che per te non è facile gestire la situazione. Ma io per te ci sono sempre – le risposi guardandola dritto negli occhi – se hai bisogno di aiuto, non esitare a chiedermelo.”
Santuzza mi sorrise:
“Sei davvero un bravo picciotto…” mormorò accarezzandomi il viso, poi si asciugò le lacrime e tornò al suo lavoro.
Quella sera a cena vi fu un insolito silenzio, interrotto soltanto dal rumore delle posate e dei piatti: Santuzza servì le portate a testa alta: la sua espressione era molto seria, ma si vedeva che dai suoi occhi trapelava una certa soddisfazione di fronte all’imbarazzo di Angelica dopo quello che aveva combinato. Ed ero molto soddisfatto anch’io: finalmente mia cugina aveva avuto quello che si meritava.
Intorno alla mezzanotte, quando in casa Spampinato tutti ormai dormivano da un po’, mi resi conto che l’eccessiva calura di quella serata mi aveva messo addosso una gran sete: avevo appena finito di tradurre una versione di latino sulla quale sapevo che sarei stato interrogato il giorno successivo, e la necessità di bere qualcosa di fresco mi portò a uscire dalla mia stanza.
Fu allora che, in corridoio, mi accorsi che la porta della stanza di Santuzza era aperta, e che la luce era ancora accesa: passandovi davanti vidi Santuzza ritta in piedi davanti allo specchio, con indosso una camicia da notte di lino bianco bordata con delle trine, la stessa sotto la quale mia cugina aveva nascosto la collana di zia Rosalia.
Rimasi incantato a fissare Santuzza illuminata dalla luce della candela, era bella come un dipinto, coi capelli scuri e ondulati sciolti sulle spalle e gli occhi neri di velluto.
Non appena mi vide si voltò, abbozzò un sorriso e venne verso di me: mi afferrò per una mano e mi condusse dentro la sua stanza, e dopo essersi sincerata dando un’occhiata in corridoio che nessuno si fosse accorto di noi, chiuse la porta a chiave.
Quello che successe dopo lo avrei ricordato per il resto della mia vita: quel 28 maggio del 1958 diventai un uomo, nel letto e tra le braccia di Santuzza, scoprii finalmente l’amore fisico grazie alla giovane donna di cui ero innamorato da un bel po’, inebriato dal suo profumo di lavanda, dalla sua pelle di seta a contatto con la mia, dalle dolci parole che ci sussurrammo per tutta la notte, dal sapore delle sue labbra morbide e carnose come ciliegie mature da cui non riuscivo a staccarmi. Mi sembrava di sognare, e invece no, Santuzza era lì con me, e mi stava donando tutta sé stessa, come una sposa innamorata e piena di passione.
Restammo abbracciati nel suo letto fino alle prime luci dell’alba, quando con la sua voce pacata e suadente mi raccontò la sua storia e il perché fosse finita a fare la cameriera in casa degli Spampinato.
Santuzza era figlia di una sartina che durante la guerra si era concessa a un gerarca che l’aveva illusa con false promesse di matrimonio: alla fine del conflitto lui era sparito chissà dove, mentre lei, che nel frattempo si era accorta di essere rimasta incinta, era stata costretta a cambiare città per portare avanti la gravidanza e dare alla luce la sua piccola senza diventare il bersaglio di pettegolezzi e cattiverie. Lavorando duramente era riuscita a far studiare sua figlia fino alla terza media, dopodiché era stata la stessa Santuzza a dire alla madre di voler lavorare per darle un aiuto economico, per quanto piccolo. Un’amica di famiglia le aveva detto che in settembre c’era bisogno di aiuto nelle campagne circostanti Agrigento per la vendemmia: era un lavoro faticoso, ma la paga era buona. Santuzza non se lo era fatto ripetere due volte, ed aveva accettato subito la proposta.
Ma una sorte terribile la stava aspettando in vigna: Alfio Mancuso, uno dei braccianti più anziani, aveva notato subito la bellezza ancora acerba di Santuzza, e quella ragazza ben presto per lui era diventata come un’ossessione, tanto che l’ultimo giorno di vendemmia con un pretesto stupido l’aveva attirata in uno dei capannoni dove era stata messa l’uva appena raccolta e l’aveva stuprata senza pietà né ritegno, lasciandola poi in terra come una bambola rotta. Era stata una delle braccianti a scoprirla sul far della sera terrorizzata e sanguinante in quel posto umido e buio, prestandole i primi soccorsi ed accompagnandola a casa dove, grazie all’abbraccio della sua mamma, Santuzza era esplosa in un pianto dirotto e liberatorio. Il lavoro a casa Spampinato era arrivato un paio di anni dopo: era stato il parroco a suggerire a mio zio di prendere in casa Santuzza, forte del fatto che le vigne nei dintorni di Agrigento dove la ragazza aveva subito lo stupro erano di proprietà di mio zio. Nello stesso periodo, Alfio Mancuso veniva trovato morto proprio nel capannone in cui aveva approfittato di Santuzza: qualcuno lo aveva infilzato con un forcone, e si seppe diversi anni dopo che molto probabilmente ad ammazzarlo era stato il fratello di una delle braccianti a cui Alfio aveva messo gli occhi addosso che era riuscito per un pelo ad evitare il peggio; in vigna tutti sapevano che Mancuso fosse un porco e un disgraziato, perciò nessuno aveva parlato né fatto il nome di chi lo aveva ucciso, e l’episodio venne fatto passare agli occhi della polizia come incidente.
Sentii la storia di Santuzza con le lacrime agli occhi:
“Santuzza, ti porto con me in Sicilia e ti sposo!” Le dissi abbracciandola.
Lei mi sorrise:
“Sei ancora picciotto per pensare a queste cose – mormorò – ma mi hai detto una cosa bellissima.”
La mattina seguente a scuola non riuscii a combinare niente, tanto che l’interrogazione di latino si rivelò un totale fallimento: gli avvenimenti della notte precedente mi avevano sconvolto, e il mio unico pensiero era incentrato su che cosa potessi fare per aiutare la mia Santuzza.
Ma quando tornai a casa ebbi un’amara sorpresa: Santuzza se n’era andata, con la sua valigia scura, il suo disco di Tony Dallara e la rosa che le avevo regalato che conservava essiccata nel libro di poesie di Emily Dickinson.
“Ha trovato un altro lavoro” mi disse laconicamente zia Rosalia quando le chiesi dove fosse andata. Cercai di mascherare la mia disperazione, ma fu difficile: me ne andai nella mia stanza e, sdraiato sul letto a guardare il soffitto, piansi lacrime amare.
Verso sera, Annarella bussò alla mia porta per avvisarmi che tra poco sarebbe stata servita la cena. Ma prima di andare via mi consegnò una busta contenente una lettera: era di Santuzza.
Ebbi un tuffo al cuore. La lessi tutta d’un fiato:
“Ciao Picciotto,
Da quando ti ho incontrato la mia vita è cambiata. Ieri notte grazie a te finalmente ho capito che cosa significa essere amata come una donna e non posseduta come una cosa. E ho preso una decisione a cui pensavo da tempo. Me ne torno in Sicilia. La mia mamma non c’è più, ma c’è ancora la mia casa dove ora abita mia zia: lavorerò nella sua sartoria. Voglio mettere da parte un po’ di soldi, farmi un corredo bellissimo e un abito da sposa da principessa, uguale a quello di Grace Kelly. Se è vero che diventerai un avvocato e che vuoi sposarmi, dovrò essere alla tua altezza!
Ti abbraccio forte e ti mando un bacio.
Tua
Santa Catalano”
Alla fine della lettera c’era un indirizzo a cui mi disse di scriverle. Lei avrebbe inviato le sue lettere per me al portinaio dello stabile in cui abitavo, per evitare di destare sospetti in casa Spampinato.
Iniziò così tra noi una corrispondenza epistolare che durò fino a quando presi la maturità classica: scendevo in Sicilia da Santuzza tutte le estati e per le feste comandate. Ormai il nostro era un vero e proprio fidanzamento, tanto che con grande dispiacere di mio zio decisi di laurearmi a Palermo per poter vedere la mia amata tutti i giorni. Dispiacere che si tramutò in un vero e proprio astio quando in casa Spampinato si seppe che la mia misteriosa fidanzata era proprio Santuzza, ‘la sguattera dal passato misterioso’, come l’aveva definita più di una volta quell’arpia di mia cugina Angelica.
Ci sposammo un anno dopo la mia laurea, e ovviamente gli Spampinato non presenziarono alla cerimonia: fu un matrimonio sobrio, con pochi invitati, celebrato in Sicilia nella stessa parrocchia dove ero stato battezzato.
Santuzza era bellissima e radiosa nell’abito bianco che aveva disegnato e realizzato da sola, identico a quello di Grace di Monaco, aveva un bouquet di rose bianche e lavanda e per unico gioiello il suo meraviglioso sorriso. I suoi occhi scuri a tratti si velavano di lacrime di commozione, ma tornavano a sprizzare felicità non appena si incrociavano coi miei. C’era voluto un po’ di tempo, ma ce l’avevamo fatta, eravamo finalmente moglie e marito.
La nostra storia è la prova che le favole non esistono solo per le principesse, e che anche la peggiore delle situazioni può avere un finale bellissimo: sebbene fossi solo un ragazzo, il mio amore per Santuzza era riuscito a sciogliere i tanti lacci che la vita aveva annodato attorno al suo cuore ferito e al suo corpo violato; il nostro amore era cresciuto e maturato insieme a noi, contro tutto e contro tutti, come un fiore delicato nato sotto il sole di una Roma da cartolina che per sbocciare si era fatto largo con forza e tenacia tra le pietre laviche di una Sicilia dura e arida, a volte rude ma in grado di regalare all’improvviso scenari meravigliosi.
Raffaella Legname