Tante storie magiche
Cuore Maori
Cuore Maori
di
Daniela Perelli
Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui conobbi Hemi: era il 5 agosto del 2000, una calda e afosa giornata nella città di Torino, città in cui ancora vivo. Sono passati undici anni, eppure… quegli occhi dal taglio particolare, grandi ed espressivi, la pelle color biscotto lievemente tostato, i capelli nerissimi e lunghi sino alle spalle, mossi. Avevamo entrambi dieci anni e lui era arrivato da poche settimane in Italia. Dalla Nuova Zelanda si era trasferito qui, a Torino, a casa dei suoi nonni. La mamma e il papà, lei italiana e il papà di origini maori, avevano deciso di mandarlo qui per qualche anno, per lo meno per tutta la durata dei suoi studi. Avevano grossi problemi economici, volevano donare al figlio un futuro e un’istruzione migliore, sarebbe tornato nella sua terra quando le cose si fossero sistemate.
I suoi nonni lo amavano moltissimo, nonostante la preoccupazione iniziale nel sapere la loro unica figlia così lontana da casa perché innamorata di un uomo che viveva dall’altra parte del mondo e che aveva deciso per amore di seguire.
Il papà di Hemi era un giocatore professionista di rugby, ma dopo un brutto incidente dovette smettere. Cominciò ad allenare i più giovani, ma era tanto difficile andare avanti, per di più la mamma di Hemi non lavorava. E così, quel giorno ci conoscemmo e da quel momento capii la sua forza, il suo essere spesso serioso, un bambino di 10 anni che per la sua stazza ne dimostrava almeno cinque di più. Diventammo amici, migliori amici: frequentavamo le stesse scuole medie, lo stesso liceo classico, la stessa classe, ci diplomammo insieme e poi, quando i nostri sentimenti cominciarono a cambiare, era ormai troppo tardi per esprimerli. Io cominciai a frequentare l’università, indirizzo medicina, volevo diventare veterinaria. E lui, essendo un bravo giocatore di rugby proprio come suo padre prima di lui, ricevette quell’offerta che lo avrebbe riportato nel suo paese di origine, sarebbe così diventato un professionista. I suoi compagni erano dispiaciuti che se ne andasse, ma erano anche felici per lui. Forse, un giorno, avrebbero giocato una partita, gli uni contro gli altri. E io, invece, cosa avevo provato esattamente? La stessa cosa che sto provando in questo momento, proprio qui, in aeroporto, mentre aspetto il suo ritorno. Non ci siamo visti per tre anni, ora sta per tornare a trovare i suoi nonni che, insieme a me, aspettano l’arrivo del volo che sta riportando Hemi qui, da noi. Qui da me…
Anche i suoi vecchi compagni di quadra sono qui, lo aspettano, hanno in serbo una bella sorpresa per lui e, non appena lo vediamo avanzare, con il suo trolley, quell’aspetto sempre così fiero, imponente, incredibile… porta i capelli cortissimi, adesso, i suoi occhi risaltano ancora di più. Mi vede, mi sorride e poi viene subito distratto dai suoi ex compagni che cominciano la loro incredibile danza Maori. Il loro modo di dare il ben tornato a un caro amico, compagno, che a loro è tanto mancato. Nessuno però sa quanto in realtà sia mancato a me, e le nostre telefonate, i messaggi, non sono serviti a farmi sentire più vicina al mio migliore amico di sempre.
Le persone si sono fermate per ammirare questo spettacolo incredibile, spettacolo a cui si è unito anche Hemi ora, e terminato poi in abbracci e forti pacche sulle spalle.
Quando la squadra si mette un po’ in disparte, Hemi si avvicina a noi, abbraccia i suoi nonni calorosamente: sono così piccoli tra le sue braccia.
˗ Ci sei mancato così tanto, tesoro. Ma come stai, ti trovo benissimo! – dice sua nonna tra una lacrima e un’altra. Anche suo nonno è visibilmente commosso.
˗ Sto benissimo, mi sei mancata nonna Tessa e anche tu nonno Marco – sussurra mentre li abbraccia ancora, fortissimo.
Una cosa di lui che ho sempre trovato molto dolce: il chiamare sempre i suoi nonni con i loro nomi, nonna Tessa e nonno Marco, lo faceva da bambino ma non ha mai smesso.
Quando posa i suoi occhi di nuovo su di me, sento un groppo in gola, sono così felice di vederlo. Si avvicina e mi abbraccia. Anche io sono così piccola tra queste braccia forti: io uno scricciolo di un metro e sessantotto, lui un gigante di un metro e novanta.
˗ Mi sei mancata tanto, Giulia – mi dice tenendomi ancora stretta tra le sue braccia.
˗ Anche tu, gigante – rispondo con quel nomignolo che gli avevo affibbiato da bambini, e che tollera solo se detto da me.
Mi lascia andare e, stranamente nonostante la sua stretta forte, mi sembra che mi manchi il respiro ora che non sono più tra le sue braccia.
Saluta i suoi compagni, ringraziandoli di essere venuti all’aeroporto e promettendo loro di rivedersi il giorno seguente per passare del tempo insieme e magari allenarsi. L’entusiasmo generale sta contagiando anche me.
˗ Venite, andiamo a casa, sarai affamato, c’è il tuo piatto preferito: arrosto con le patate. Rimani a pranzo con noi, Giulia? ˗ mi domanda infine Tessa. Sorrido ma, quando sto per dire di no, interviene Hemi.
˗ Certo che mangia con noi.
Mi fa l’occhiolino e io alla fine accetto.
˗ Grazie, volentieri.
Il pranzo è così piacevole, sono affascinata dai racconti di Hemi, dagli aneddoti della vita in Nuova Zelanda e dalla felicità che emanano i suoi occhi.
˗ Io e la nonna abbiamo seguito molte delle partite, quella amichevole con la squadra italiana è stata emozionante. Vederti giocare contro i tuoi vecchi compagni… mi ha tanto ricordato i tuoi inizi, quando ancora eri qui con noi a Torino.
Suo nonno non continua, è visibilmente commosso. Hemi se ne accorge e si fa un po’ serio.
˗ Non ho ancora deciso se tornare o rimanere qui, quando ho rivisto i miei vecchi compagni ho ripensato ai miei inizi, alla mia carriera di rugbista, tutto è cominciato qui, e poi…
Adesso i suoi occhi sono su di me, ma non continua. Si pulisce la bocca con il tovagliolo, dopo l’ultimo boccone, e distoglie l’attenzione da me. Io faccio lo stesso. Un peso sul cuore. Cosa speravo, in realtà?
˗ Anche io ho seguito molte delle tue partite, sai. Non sei poi così male ˗ gli dico per stemprare la tensione creata tra noi, e prenderlo un po’ in giro è sempre stato il modo migliore.
˗ E così non sarei tanto male, è…
Faccio spallucce sotto gli occhi divertiti dei suoi nonni, abituati ai nostri genuini battibecchi.
Sparecchiamo la tavola e poi li ringrazio per il pranzo.
˗ Ti aspettiamo di nuovo, Giulia. Sappiamo che sei molto impegnata con l’università ˗ dice Tessa. Annuisco e ringrazio per il pranzo, promettendo loro di tornare presto a trovarli.
Hemi mi accompagna alla porta.
˗ Ci vediamo, domani? Magari facciamo due passi, voglio sapere tutto dell’università, di quello che hai fatto in questi tre anni. Tutto, voglio sapere tutto.
È così vicino adesso che devo sollevare di molto il capo per guardarlo negli occhi.
˗ Ok, dalle quattordici in poi sono libera.
˗ Passo a prenderti all’università, allora.
˗ Va bene.
Si abbassa e mi dà un bacio sulla guancia. Un bacio che, seppur casto e amichevole, è durato più del dovuto.
Il giorno seguente lo trovo ad aspettarmi all’uscita della facoltà: indossa una camicia a quadri a maniche corte leggermente aperta sul davanti e da cui spuntava una maglietta nera. Jeans scuri e scarponcini militari. I capelli portati così corti gli danno un’aria autoritaria ma al tempo stesso molto dolce. Perché quando sorride quelle piccole fossette che si formano ai lati della bocca lo fanno sembrare, ai miei occhi, ancora quel bambino che conobbi la prima volta. E sorride, appena mi vede, e io sorrido a lui. Chissà cosa penserebbe se sapesse ciò che in realtà provo per lui. Devo stare attenta a non far trasparire nulla, non voglio perdere la sua amicizia, è troppo importante per me.
˗ Signorina Giulia Marini, dove la porto? – dice divertito, accennando un lieve inchino e indicando, facendomi ridere di gusto, le bici che ha affittato.
˗ Hai visto che fuori serie? – continua.
˗ Hai affittato due bici… ma di cosa dovrei stupirmi in fondo, sei un vero sportivo, no?
Fa spallucce.
˗ Sono passato per parco Ruffini prima di venire qui, le ho viste e non ne ho potuto fare a meno, diciamo… – Ci pensa un attimo su e poi continua, ˗ Diciamo che qui sono senza macchina e mi scocciava chiederla a mio nonno, ogni giorno la usano per andare in campagna per curare il loro orto e poi Torino è così perfetta per andare in bici.
Lo osservo attentamente, sembra in imbarazzo, ma non vorrei sbagliarmi o illudermi di cose che non esistono.
˗ Mi sembra un’ottima idea, possiamo andare a mangiare qualcosa in un bar qui vicino che frequento spesso, è molto carino e fanno dei panini farciti che sono buonissimi, poi potremmo fare un giro in bici al parco.
˗ Come desidera, madame… – continua divertito.
Metto il mio zainetto contenente libri e appunti nel cestino, saliamo sulle bici e andiamo al bar per mangiare qualcosa. Parliamo del più e del meno durante il pranzo, gli racconto dei miei studi, degli esami, delle difficoltà incontrate e dei lavori saltuari per poter mantenere l’università, per cercare di gravare il meno possibile sui miei genitori.
E lui mi racconta della Nuova a Zelanda, di Taupo, la città dove ora di nuovo vive, della bellezza delle cascate Huka Falls in prossimità del fiume Waikato, e delle passeggiate tra la natura incontaminata… È magia ascoltarlo.
˗ Sai, anche Torino per me è magica e speciale, è una città così ricca di storia, di spazi per poter camminare, andare in bici… – e qui ride nuovamente.
˗ Sì, è vero, è bellissima, eppure… mi piacerebbe un giorno visitare la Nuova Zelanda. Chissà, magari una volta terminata l’università potrò venire a trovarti. Mi piacerebbe molto.
Hemi si fa serio.
˗ Piacerebbe molto anche a me, Giulia, non immagini neppure quanto – dice, spiazzandomi. Perché è il modo in cui lo dice, il modo in cui mi guarda, che mi dà da pensare, da sperare che forse anche lui prova qualcosa di più che una semplice amicizia nei miei confronti. Faccio però finta di nulla e mi limito a sorridergli.
˗ Cosa ne dici se facciamo il nostro bel giro per il parco in bicicletta? – domando infine per stemperare quella imminente tensione.
˗ Sì, andiamo – risponde.
Ed è davvero un bellissimo pomeriggio: il cielo sereno, una giornata di primavera fresca e soleggiata. Ci sediamo per un po’ su di una panchina del parco a chiacchierare ancora. Non mi chiede mai se ho un ragazzo e io non chiedo mai a lui se ha una ragazza in Nuova Zelanda. Mi insegna qualche parola nella sua lingua maori, proprio come faceva quando eravamo piccoli. Era uno dei tanti modi di passare il tempo assieme, ma tra scherzi e risate visto che non ero poi così brava.
˗ Verrai stasera a vedere l’allenamento? – mi domanda.
˗ Sì, sarà bello giocare di nuovo con i tuoi compagni italiani, sarà emozionante – è più un’affermazione la mia.
˗ Sì, sarà bellissimo e fino a che starò qui voglio godere appieno ogni momento, voglio ricordare tutto anche di questi giorni con te, Giulia. So già che mi mancherai tantissimo quando me ne andrò. Ora ancora di più…
Non aggiunge altro. Si alza dalla panchina e risale sulla bici. Io faccio lo stesso. Ci salutiamo una volta riportate dove le ha affittate. Entrambi abitiamo in zona.
˗ Allora… ci vediamo stasera, Giulia.
˗ Verso che ora comincia l’allenamento?
˗ Dopo cena, verso le ventuno.
Ci salutiamo ancora.
Quel groppo in gola, quel macigno sul cuore, proprio non mi vuole lasciare.
Quando arrivo alle gradinate del centro sportivo, sento già voci fare eco tutto intorno a me.
Mi siedo vicino a un gruppo di amici e amiche dell’università che sono anch’essi venuti a vedere l’allenamento, e forse anche perché sapevano che Hemi Marsh, il grande rugbista della squadra neozelandese, è qui, e sin allena con la quadra italiana. Una piccola squadra, ma a Hemi non importa, non si è vantato di giocare nella nazionale, lui è sempre… Hemi. Il ragazzo con le fossette e gli occhi grandi dal taglio particolare, che ha sempre offerto una parola di incoraggiamento ai suoi amici di squadra e, anche quando per la squadra di Torino vi era stata la possibilità di raggiungere e gareggiare con professionisti neozelandesi di quel livello, non ha mai smesso di essere anche uno di loro.
E ora che lo guardo giocare di nuovo dal vivo, ora che è stato con me, ora che ho potuto sentire la sua voce non solo attraverso un cellulare, non so proprio come farò a non vederlo più chissà ancora per quanto tempo, poi. Chissà se tornerà, chissà se sarò io un giorno ad andare da lui.
In un attimo di pausa, come se mi avesse letto nel pensiero, si gira verso di me, mi guarda dritto negli occhi, mi sorride ancora, non abbassa lo sguardo e io neppure. Continuiamo così, a guardarci, fino a che non riprendono con l’allenamento e tutto sembra tornare come prima.
Quando finisce, decido di aspettarlo fuori dal centro, ormai è buio ma la luna è splendente e illumina la notte. Un dolce profumo di bagnoschiuma mi fa voltare, Hemi si sta avvicinando, il borsone in spalla, indossa la tuta della società sportiva, proprio come quando era un ragazzo e faceva parte della squadra, solo di qualche taglia più grande.
Si ferma di fronte a me, io alzo lo sguardo su di lui. Qualcuno ci passa vicino, ci saluta e noi ricambiamo. Appoggia a terra il borsone, sollevo il capo per guardarlo negli occhi. Solo la luna e la luce fioca dei lampioni ci illumina: i miei capelli chiari sembrano d’argento e così in contrasto con i suoi scuri. Vorrei parlare ma non ci riesco.
˗ Sai, amo la mia vita in Nuova Zelanda, la amo davvero, ho ottenuto tanto, lì ci sono i miei genitori, i miei compagni di squadra, tutto… Eppure mi manca sempre qualcosa, mi manchi tu… Non faccio che pensare a noi, al fatto che non riesco più a portare avanti questa farsa dell’amicizia, al fatto che provo molto di più per te. Ma ho paura ad ammettere questi miei sentimenti, perché so che saremo sempre distanti. So che io non posso lasciare tutto per tornare qui a Torino, so che tu non puoi lasciare i tuoi studi per stare dall’altra parte del mondo. Ma soprattutto so che non riesco a capire se anche tu provi lo stesso per me.
Mi ha spiazzata questa sua confessione, soprattutto perché so che ha ragione su tutto, noi vivremo sempre distanti, ma i miei sentimenti per lui sono troppo forti da sotterrare ancora.
˗ Vedi Hemi, io credo di amarti, credo di essere sempre stata innamorata di te, ma come te ho sempre saputo che, prima o poi, la distanza ci avrebbe separati e così è stato. E ora ci separerà di nuovo. Non voglio che tu rinunci ai tuoi sogni per me e da quello che mi hai detto è lo stesso per te nei miei confronti, però so che un giorno staremo insieme, so che è così. E se tu non potrai venire da me, sarò io a venire da te. Ma so anche che potrebbe essere il contrario…
˗ Tu mi aspetterai? – mi domanda.
˗ E tu aspetterai me? – gli domando a mia volta.
Ci sorridiamo. Avvicina le sue labbra alle mie e mi bacia.
È passato ancora qualche anno, ricordo che quella sera ci facemmo molte promesse, e lo stesso anche quando lo accompagnai all’aeroporto per tornare nuovamente nella sua città natale.
Promesse che poi, una volta diventati davvero adulti, siamo riusciti a mantenere e… la vita qui in Nuova Zelanda non avrei potuto immaginarla più meravigliosa ora che ho avverato il mio sogno di diventare veterinaria.
Ora che, insieme, abbiamo costruito la nostra famiglia.