Tante storie magiche
IL BIGLIETTO NEL TACCUINO
IL BIGLIETTO NEL TACCUINO
Storia vera di Valerio M., raccolta da Simona Maria Corvese
“Il perdono non cambia il passato, ma di certo amplia il futuro”
Paul Bausa
Ho sempre amato scrivere storie per diletto. Sono una persona riflessiva e amo esprimere le mie riflessioni per iscritto. Tuttavia vi sono eventi nella vita che possono bloccare anche le passioni più grandi.
È mattina presto, in una giornata di fine novembre in un pesino di alta montagna. Sto sorseggiando una tazza di cappuccino davanti alla finestra del salotto e ammiro il panorama della valle abbellito da una spruzzata di neve. La prima neve dell’anno, scesa questa notte. Tra poco uscirò di casa per accompagnare mio figlio a scuola e poi andrò a lavorare. Oggi è un giorno speciale: ricorre l’anniversario del giorno in cui la mia compagna di vita è venuta a mancare, tre anni fa. Per la prima volta sono in pace con me stesso e, con lo sguardo, mi volto verso un taccuino in pelle che per lungo tempo ha custodito qualcosa di molto prezioso per me.
Esattamente tre anni fa, in questo giorno, Elena e io avemmo un acceso diverbio. Eravamo tutti e due nervosi a causa di una situazione familiare incerta. Eravamo tutti e due divorziati e convivevamo da quattro anni. Nostro figlio aveva ormai tre anni e progettavamo di sposarci ma io avevo una situazione lavorativa molto incerta. Sapevo che presto avrei perso il mio lavoro: gestivo un negozio di abbigliamento sportivo ma il turismo nella nostra piccola valle di montagna era calato molto negli ultimi anni. Era solo questione di tempo e avrei dovuto chiudere il negozio. Mi ero concesso di resistere ancora un anno poi avrei posto fine a un’attività commerciale avviata da mio padre con orgoglio. Era stato il punto di riferimento per l’abbigliamento e le attrezzature sportive in tutta la valle ma le cose erano cambiate molto con lo scorrere degli anni. Non mi ero perso d’animo comunque. Avevo preso contatti con un amministratore di condomini prossimo al pensionamento e gli avevo chiesto di insegnarmi il lavoro e passarmi i suoi clienti. Era l’unico spiraglio di speranza che mi rimaneva e sarebbe stato un anno durissimo, diviso tra le incombenze della famiglia, l’attività commerciale in bilico, i corsi per diventare amministratore di condomini, lo studio e la pratica. Elena era infermiera e soggetta a lavorare a turni. Non era un lavoro leggero il suo. Fatto sta che in quel periodo che lasciava presagire grandi sfide e cambiamenti, spesso eravamo tesi e la nostra tensione sfociava in litigate improvvise, anche per motivi futili.
Quella sera di novembre avemmo un diverbio piuttosto acceso su chi avrebbe accompagnato alla scuola materna nostro figlio il giorno seguente. Elena era stanca dopo una settimana di turni notturni. Io l’indomani avevo appuntamento con l’amministratore di condomini che mi stava facendo fare tirocinio per un sopralluogo in alcuni condomini che gestiva. Il mio rifiuto di accompagnare il bambino l’aveva esasperata, la mia irragionevolezza e anche il mio egoismo avevano fatto scoppiare la lite.
Quella sera Elena uscì di casa arrabbiata, sbattendo la porta di casa.
Verso le 7 di mattina non era ancora tornata a casa. L’ospedale era a metà valle, a 4 paesi di distanza dal nostro. Il suo turno di lavoro finiva alle 6 e a quell’ora di solito non trovava traffico per risalire la valle, dal momento che la maggior parte dei pendolari si muoveva verso sud.
Era scesa la prima neve della stagione in quei giorni e, sebbene le strade fossero sgombre e ben pulite, spesso a quell’ora erano ricoperte da un velo di gelo e brina.
Di solito ingannavo le lunghe serate in cui lei era assente dedicandomi alla mia più grande passione: la scrittura. Mettevo a dormire il mio piccolo Luca, gli rimboccavo le copertine, gli leggevo una favola e poi, quando si era addormentato, tornavo in salotto e aprivo il mio taccuino di pelle scura. “Il taccuino delle storie” lo chiamava Elena. Ogni volta che ne finivo una era lei la prima persona a leggerle e a esprimere con sincerità le sue impressioni.
Quando finivo di scrivere chiudevo il taccuino con un laccio di cuoio cui erano attaccati due piccoli ciondoli d’argento che mi aveva regalato lei: una coccinella e un quadrifoglio, per portare fortuna alla mia scrittura. Di solito lo riponevo su uno scaffale della libreria ma la notte precedente avevo fatto molto tardi a scrivere e lo avevo dimenticato sul tavolo del salotto. Giaceva lì da quando Elena era uscita di casa.
Alle sette e mezzo ricevetti una telefonata dall’ospedale. Elena aveva avuto un incidente con la macchina e l’avevano ricoverata d’urgenza. Era grave.
Chiamai la vicina di casa e le spiegai che cosa era accaduto. Era una madre di famiglia divorziata e i suoi due figli erano compagni di giochi del mio Luca.
“Non ti preoccupare, Valerio. Mio occupo io di Luca. Fammi avere notizie di Elena quando sei in ospedale, te ne prego”.
La ringraziai e le feci vedere dove poteva trovare gli abiti da far indossare al bambino e dove avrebbe trovato altre cose in casa ma ero talmente agitato che non riuscivo a ricordare cos’altro le dissi prima di uscire. Ero sconvolto e mi vedevo come se fossi in un film o in un incubo.
Quando arrivai in ospedale scoprii la verità. Elena era in fin di vita. Venni avvicinato da un signore che mi si presentò. Mi disse di essere un pendolare che abitava in quel paese e che era stato testimone dell’incidente. L’uomo aveva visto una volpe attraversare improvvisamente la strada e la frenata brusca dell’auto di Elena. La strada era ghiacciata ed Elena aveva perso il controllo dell’auto, andando a sbattere violentemente contro il muro di una casa. Era stato lui a chiamare immediatamente soccorso.
Lo ringraziai ma ero completamente fuori di me. Quell’uomo mi stette accanto fino a quando il medico mi venne a comunicare che Elena non ce l’aveva fatta. Se ne era andata per sempre.
I due anni che seguirono furono terribili. Chiusi il mio negozio ma la nuova attività di amministratore di condomini si era ben avviata. Arrivai a gestire la maggior parte dei condomini del mio paese e quelli di altri due paesi adiacenti al mio. Lavorai come un matto per mettere a tacere il dolore che provavo e soprattutto il fatto di non essermi mai perdonato il diverbio che avevo avuto con Elena.
L’avevo lasciata uscire di casa senza chiederle scusa, senza chiarirmi con lei. Non avevo avuto la possibilità di dirle quanto l’amavo e che quel litigio era nato dalle mie preoccupazioni… di dirle che era una donna meravigliosa e la miglior madre che potesse capitare a nostro figlio.
Lorena, la mia vicina di casa, fu la mia salvezza. Mi fu sempre vicina con tatto e discrezione e divenne da subito una presenza importante per Luca. Fu lei a occuparsi di mio figlio, come una seconda madre. Lorena era maestra nella scuola elementare del paese e si era molto affezionata a Luca. Le proposi di occuparsi di Luca come secondo lavoro ma capii che lei accettò la mia proposta non per motivi economici bensì affettivi.
Con il passare dei mesi capii che la presenza di Lorena nella mia vita mi faceva stare meglio. Era sempre pronta ad ascoltarmi. Quando avevo bisogno di parlare con qualcuno delle mie preoccupazioni, lei era lì.
Passò un anno e il periodo più duro fu l’anniversario della morte di Elena e le feste natalizie. Lorena mi fu accanto con tatto e mi aiutò a superarlo. Tra noi nacque un’affettuosa amicizia e poi un sentimento più profondo ma io non riuscivo a lasciarmi andare, a chiudere con il mio passato. Non riuscivo a perdonarmi.
Un anno fa prestai un libro da leggere a Lorena. Lei ama leggere quanto me e, ogni volta che viene in casa mia, si sofferma a leggere i titoli dei libri disposti ordinatamente sugli scaffali della libreria.
“Scegli pure il libro che ti interessa, Lorena”, la incoraggiai e lei non se lo fece ripetere due volte.
“Che cos’è questo?”, mi chiese.
Io ero seduto al tavolo del salotto a lavorare al computer. Dalla mia posizione, le voltavo le spalle e non avevo prestato attenzione a cosa avesse fatto. Mi voltai e la vidi con in mano il mio taccuino di pelle. Era rimasto lì dal giorno della morte di Elena. Non avevo più scritto una parola, anche se mi avrebbe fatto bene scrivere le mie emozioni. Non lo avevo più preso in mano.
“È il mio taccuino dei racconti. Un tempo amavo scriverci storie”, le spiegai con disinteresse.
“Storie di quale genere?”, mi chiese incuriosita Lorena.
“A volte storie di fantasia, a volte storie vere”, risposi distrattamente, senza distogliere lo sguardo dal computer. Stavo preparando il verbale di un’assemblea e non vedevo l’ora di finirlo.
Lorena sedette al tavolo, accanto a me. Sciolse il nodo del laccio in cuoio che lo cingeva, facendo tintinnare i due ciondoli d’argento e cominciò a sfogliare le pagine. Rimase in silenzio per un po’, assorta nella lettura.
“Sono belle le tue storie, Valerio. Posso portarlo a casa per continuare a leggerle?”.
“Sono onorato del tuo interesse, Lorena. Prendilo pure e se ti piace, puoi anche tenerlo. Ormai non scrivo più”, le risposi, tornando subito dopo al mio lavoro.
Lei fece per chiudere il taccuino ma si fermò. Nella tasca interna della copertina anteriore c’era una piccola busta colorata che affiorava. Era impossibile non notarla perché era fatta di carta con un motivo di fiori rosa acceso. Con curiosità ma anche con incertezza, Lorena la estrasse dalla tasca. Aveva capito che doveva essere qualcosa di personale e temeva di violare l’intimità di quel contenuto.
Aprì la bustina e vi estrasse un biglietto piegato più volte:
“Caro Valerio, perdonami per il diverbio che abbiamo avuto questa sera. Eravamo tutti e due nervosi e ci siamo feriti a vicenda. Scusami se ti ho offeso. Io ti amo e sono certa che i nostri problemi si risolveranno. Avevo pensato di chiamarti sul cellulare una volta arrivata in ospedale ma è completamente scarico. Non potevo aspettare di ricaricarlo, così ti ho scritto questo messaggio per chiarirmi con te. Ho pensato di lasciarlo in un posto a te molto caro, il tuo taccuino degli scritti, perché so che è ad esso che tu affiderai le tue emozioni, questa sera. Sono contenta di averlo fatto perché ora mi sento meglio e in pace con me stessa.
Non vedo l’ora di riabbracciarti, domani!
Elena”
Lorena richiuse il biglietto con mani tremanti.
Io non mi ero mai perdonato di non essere riuscito a chiarirmi con Elena dopo quel diverbio. Quello era il motivo per cui la mia relazione con Lorena non riusciva a evolvere oltre un’affettuosa amicizia. Il sentimento che tutti e due provavamo era ostacolato da un altro sentimento che io non riuscivo a esprimere: il perdono.
Ma se le cose stavano così, Lorena pensò che fosse probabile che io non avessi mai letto quel biglietto. Possibile che fosse sempre stato lì, nascosto in quella tasca? Lei stessa non lo aveva notato subito e lo aveva scoperto per caso.
“Valerio”, mi disse, appoggiandomi delicatamente la mano sull’avambraccio per attirare la mia attenzione “Credo che questo biglietto sia per te. Scusa se mi è capitato di leggerlo. Non immaginavo avesse questo contenuto”.
La guardai con stupore, senza capire. Lei me lo porse e attese che io lo leggessi.
Lacrime copiose rigarono il mio volto. Mi lasciai abbracciare da Lorena, ormai consapevole di quanto era accaduto. Quando mi ricomposi, una sensazione di calore e pace interiore mi pervase. Era come se Elena fosse lì, accanto a me, in quel momento.
Fu in quell’esatto momento che riuscii a perdonarmi.
È passato un anno da quel giorno e la mia vita ha preso una nuova direzione. Tra quindici giorni Lorena e io ci sposeremo ma nel mio cuore rimarrà per sempre il ricordo del mio amore per Elena. Il ricordo del nostro amore spezzato. Ho ricominciato anche a scrivere. Ho iniziato la storia di questo amore così, quando Luca sarà grande, potrà leggerla e ricordare insieme a me quale grande donna è stata sua madre.
“Il biglietto nel taccuino”, copyright © 2019 Simona Maria Corvese.