Tante storie magiche
Tutto in una notte
Tutto in una notte
Sonila Strakosha.
La chiave si mosse lentamente dentro la serratura e il cancello si aprì lasciando dietro quel rumore rauco che sapeva di ruggine mentre nell’aria si espandeva un senso di assuefatto.
Entrò nel giardino malmesso. L’erba secca, ovunque sporcizia, non vi erano fiori ad abbellire il prato di quella casa, un tempo fiorito e curato nei minimi dettagli.
Era da ventitré anni che Adele si era allontanata dal suo luogo nativo, un piccolo centro nel profondo sud d’Italia. Aveva soltanto diciotto anni quando nell’ormai lontano 1993 decise di abbandonare definitivamente il suo piccolo paese dove aveva vissuto la propria infanzia e l’adolescenza. Quel prato era testimone dei suoi sogni da fanciulla, delle notti insonne, delle belle letture serali di una volta, ma anche di tante sofferenze… purtroppo! Non aveva avuto un’infanzia facile Adele, ma adesso aveva lasciato tutto alle spalle. Si trattava di un tempo che non avrebbe più fatto ritorno “purtroppo o per fortuna” a questo punto della sua vita non lo sapeva più! Adele era vissuta in quella piccola casa soltanto con la madre, Flora, una donna riservata e di poche parole.
Flora portò alla luce la figlia nel 1975. Non era una donna sposata, non aveva un marito e il fatto più inquietante fu che lei, non raccontò mai a nessuno chi era il padre di sua figlia. In quegli anni essere una ragazza madre comportava dover far fronte a grandi complicazioni nonché a difficoltà incommensurabili, soprattutto al sud. La famiglia di Flora dichiarò con fermezza di disconoscere e ripudiare la figlia se lei non avesse seguito il loro consiglio di abortire. Flora non diede ascolto a nessuno dei suoi familiari, seguì il proprio istinto, si allontanò dalla città stabilendosi in un piccolo paese nel Salento, all’estremo sud. Ed è proprio lì che decise di costruire la nuova vita di madre. Lei sola, e la sua piccolina appena nata. Una scelta più che strana di andare a cercare rifugio in un piccolo centro, sicuramente ostruito da una mentalità molto più conservatrice e perbenista di quella della città. A quanto pare l’idea di trovarsi da sola nella confusione di un centro metropolitano le portava un’angoscia più forte di quella che potevano procurare le malelingue. La decisione di Flora di tenere la bambina fu assolutamente audace per il tempo, ma lo fu altrettanto anche il fatto di andare a stabilirsi in un piccolissimo centro ancora più a sud della sua città. Flora trovò lavoro come addetta alle pulizie in una modesta struttura contabile non lontano dal paese. Saltuariamente lavorava anche nei campi. Si dava da fare senza mai stancarsi nel periodo della raccolta delle olive, o quando la chiamavano per dare una mano nell’essicazione del tabacco. Adele non si ricordava mai di aver visto sua madre lamentarsi. La donna lavorava duro, faceva sacrifici enormi pur di non far mancare nulla alla sua piccolina. La bambina sentiva quanto bene la donna le voleva, quanto la amasse, lo percepiva dai suoi occhi, dagli sguardi malleabili, colmi di commozione e tenerezza lanciati dalla donna, quasi sempre in modo furtivo. Flora aveva imparato a non esternare le proprie emozioni, a non dimostrare, a non rendere visibile il bene provato, forse perché così facendo risultava meno debole agli occhi degli altri, e lei doveva essere forte, non poteva permettersi di piegarsi alla vita. Aveva preso la propria decisione di cavarsela da sola, avrebbe dovuto far fronte ad ogni responsabilità, a qualsiasi ostacolo, da sola. E non poteva acconsentire a sé di farsi prendere dalla tenerezza. Sembrava che la fragilità non fosse mai appartenuta a quella donna. La vita l’aveva resa forte, ma fredda, anche nei confronti della figlia. Benché Adele avesse piena consapevolezza sull’amore che la madre nutriva nei suoi confronti, Flora raramente aveva espresso attimi di forte premura e grande trasporto emotivo verso la figliola. Adele, a lungo andare avrebbe inteso quella mancanza di coccole in eccesso o di usuali parole d’amore, come un modo per dimostrare forza davanti a tutti, anche davanti alla propria creatura.
Flora non si sposò mai, non andò mai ad incontrare la propria famiglia, nemmeno i parenti, e mai in nessuna circostanza rivelò l’identità dell’uomo che l’aveva messa incinta. Quelle poche volte che Adele aveva osato chiedere una spiegazione, la madre le si era rivolta contro con aria sempre impassibile, senza guardarla negli occhi. Ogni volta la sua risposta fu la seguente.
“Tu sei mia figlia, mia e basta! Di nessun altro! Non si può elemosinare l’amore. Nessuno è tanto importante da prendersi gioco della tua dignità. Nemmeno chi è sangue del tuo sangue. Tu non hai un padre, hai solo me!”.
Adele si ricordava la tristezza provata al suono di quelle parole. Avrebbe voluto conoscere il volto dell’uomo che era suo padre, le sarebbe piaciuto così tanto poterlo incontrare, sapere com’era fatto, conoscere il suo nome. Ma con l’andare degli anni si rassegnò del tutto.
Si ricordava come una volta, quando aveva sì e no quattordici anni, in una notte senza sonno osò chiedere a sua madre.
“Mamma perché non mi porti a conoscere i miei nonni, è passato tanto tempo. Adesso forse te lo hanno perdonato il tuo sbaglio di gioventù, come lo chiami tu!”.
Si ricordava gli occhi della madre segnati da una profonda tristezza. Flora l’aveva osservata con attenzione e poi le aveva detto.
“Avrebbero dovuto perdonarmelo tempo fa, adesso è tardi, piccola. Adesso sono io che non perdono. Vedi io non potrei mai lasciare te, abbandonarti, qualsiasi sbaglio tu possa commettere. E invece mia madre lo ha fatto. Mi ha lasciata sola al mondo, indifesa, nel momento più buio. Adesso sono io che non perdono!”
Fu così che Adele si arrese. Non seppe mai perché suo padre non la volle riconoscere, non ebbe la possibilità di informarsi se all’epoca lui fosse un uomo sposato o meno, non conobbe mai l’identità di quell’uomo. Col trascorrere degli anni si abituò all’idea che la madre aveva ragione, non si poteva elemosinare l’amore! Pian pianino cercò di rassegnarsi al fatto che lei non aveva che sua madre. Flora era il suo tutto. Era diventata per la figlia mamma, papà, nonna, nonno. La ragazza aveva soltanto lei, la madre… e la donna non aveva che Adele.
Entrò in casa. L’ambiente era buio e abbastanza umido, nonostante fuori facesse ancora caldo. Si sentiva perfino l’odore della muffa. Si trovavano ai primi di settembre, ma il mese preservava pur sempre temperature assolutamente estivi. Con tutto ciò dentro casa si sentiva odore di forte umidità. Adele non si stupì. Il mare era vicino, bastavano dieci minuti di macchina. E per di più la casa era rimasta a lungo disabitata. Lei tornava molto di rado nel piccolo paese nativo, ormai non lo legava più nulla a quel posto, tranne vecchi ricordi dimenticati e sepolti per sempre.
Erano passati due anni da quando ci era stata per l’ultima volta. Adesso tornava esclusivamente per porre fine alla sua dimora da ragazza, era giunta lì soltanto per salutare, per dire addio. Stava per tagliare ogni legame con la piccola casa di tre locali e anche con il suo paese che ormai le sembrava non le appartenesse più.
Nonostante fosse mattina, provava una debolezza non indifferente. Aveva viaggiato per tutta la notte. Ci aveva impiegato quasi otto ore ad arrivare da Bologna fin lì. Parcheggiò la macchina non distante da casa, nel solito posto-macchina che era di proprietà.
Non appena dentro, diede una spolverata e, stanca, si sedette in una delle sedie della grande cucina che al tempo stesso serviva anche come salotto. Un unico ambiente dove si erano svolte tutte le abitudini giornaliere. Era stato lì che aveva consumato i pasti, cucinato, trascorso il tempo. Di fronte a lei il divano di tre posti di tessuto marrone, coperto da un grande lenzuolo bianco. Quanti pomeriggi aveva passato rannicchiata nella morbidezza di quel divano, avvolta nel suo calore a guardare la tv, a riposare, e pure a sognare. Molto spesso aveva persino cacciato lacrime amare, affogando su quel divano le sue prime delusioni, le amarezze, come se avesse voluto nascondere se stessa nella morbidezza di quel tessuto e avesse cercato di tenere l’anima al riparo dalla rigidità del tempo.
Adesso quella casa ormai vecchia e non curata stava per essere venduta. Dopo che da due anni l’aveva messa in vendita, la stava per cedere a prezzo stracciato ad uno degli abitanti, un paesano che conosceva da una vita. Lui l’avrebbe trasformata in una casa vacanza per i numerosi villeggianti che occupavano d’estate il tranquillo, modesto paese adiacente al mare.
Non vedeva più nessun interesse nel dover prolungare ulteriormente la vendita. L’indomani avrebbe firmato le carte dal notaio e il tutto si sarebbe concluso. Non che lei avesse necessità di denaro. Aveva saputo costruire con successo la propria vita diventando una donna in carriera, assolutamente realizzata dal punto di vista professionale. Godeva di un buon reddito e un lavoro che la soddisfaceva appagando pienamente il monotono silenzio delle sue nottate, il più delle volte solitarie. Ma non c’era più nessuna ragione che lei tenesse inutilmente una casa che quasi non sfruttava più. Le vacanze le trascorreva sempre in luoghi diversi. Amava scoprire nuove prospettive.
Ancora seduta sulla sedia, impostata con lo sguardo sul suo divano, le vennero in mente i sacrifici fatti dalla madre per tanti anni, fino a quando riuscì a porre fine alla costruzione della loro “piccola villetta” (come la donna l’aveva sempre chiamata).
Si ricordò dello sguardo fiero di mamma e della contentezza letta negli occhi, nel momento in cui mostrò ad Adele le chiavi della modesta abitazione. Una gioia impossibile da mascherare con indifferenza. Dopo tanti anni di duro lavoro, quando Adele aveva appena compiuto dieci anni, Flora poté finalmente regalare a sé e a lei, quel piccolo immobile, interamente costruito con il sudore del suo lavoro, con grande dedizione e impegno.
Le parve di sentire la voce della madre il giorno in cui entrarono ad abitare la casetta.
“Saremo felici qua noi due, io e te. Saremo felici tesoro! Finalmente abbiamo la nostra villetta, non è bellissima? C’è anche il prato. Pian piano ci pensiamo a mettere un’altalena che ne dici? Anche se adesso sei cresciuta, sarebbe comunque bello avere la nostra altalena personale nel giardino. Ci dondoliamo insieme. A me è sempre piaciuto andare sull’altalena!”, le disse Flora quel giorno in modo frenetico e abbastanza gioviale. Adele non aveva mai visto gli occhi della madre tanto entusiasmati, come rapiti dai sogni. In quegli attimi lei non era la donna forte, dallo sguardo impenetrabile, ma una fanciulla affascinata… felice!
“Sì mamma, la vorrei tanto!”, aveva esclamato sodisfatta Adele, pure lei rapita dall’entusiasmo della donna.
Di scatto si alzò con una certa forza. Si voltò alla sua sinistra verso la finestra. Con mosse rapide, alzò la tapparella. Il sole che fino a pochi secondi prima filtrava debole, regalò generoso la sua eterna lucentezza. La stanza venne invasa dalla luce del giorno. Adele scorse il giardino. All’esterno si trovava ancora la sua, la loro altalena, il bellissimo regalo di compleanno che sua madre le fece un anno dopo che si erano trasferite in casa di proprietà
Flora aveva sempre mantenuto le sue promesse. Diede alla figlia tutto ciò che aveva giurato a se stessa, tutto ciò che si poteva permettere di donare. Ad Adele non mancò mai nulla. Flora aveva dedicato alla figlia la sua intera vita. Le aveva fatto bastare lei, con la propria solitudine. E sembrava proprio che la ragazza avesse seguito l’esempio di mamma. Infatti, ancora adesso, dopo aver compiuto quarantuno anni, si trovava sempre rinchiusa nella stessa identica solitudine della madre. Aveva imparato a bastarsi da sola, a vivere con i propri ricordi ma che molti dei quali si rifiutava ormai di accostarli a sé, li aveva respinti, gettati via. Cercava di pensare soltanto ai bei momenti vissuti con la madre, il resto era come se lo avesse sradicato dal suo essere, le sembrava come se la sua anima non accettava ulteriore dolore e aveva cercato di gettare così nel dimenticatoio del passato i brutti ricordi.
Si portò lontano col pensiero. Scorse con sorprendente facilità la mamma mentre la spingeva con le sue braccia forti sull’altalena e nel frattempo le chiedeva se fosse felice.
“Ti piace piccola? Chiudi gli occhi e prova a pensare soltanto cose belle! Non è meraviglioso!” le diceva.
Ricordò nuovamente con nostalgia i suoi occhi sereni quando si sedeva lei stessa per andare sull’altalena, abbandonandosi solo per pochi attimi alla spensieratezza. Quelle volte aveva visto gli occhi di mamma sereni come non mai.
“Adele spingimi più forte, mi sembra di volare! Mi sembra di spazzare via tutte le angosce! Spingimi Adele, spingimi!”.
Che bella la sua voce giocosa, distante dalle preoccupazioni. Fu talmente invitante abbandonarsi al ricordo di lei così libera, smascherata dalla rigidità cinica del destino, dalla frequente freddezza con la quale si curava di rivestirsi in ogni circostanza, tranne quando si inebriava giocosa, ridendo con la disinvoltura di una bambina, mentre divertita andava sull’altalena e abbracciava il vento.
Scorse ancora l’altalena, adesso mezza distrutta dai segni del tempo. Mentre passeggiava con la mente sommersa dentro un vortice di nostalgiche memorie, sentiva come si dondolava la propria anima, come si trasformava la sua durezza costruita nella lunga attesa della propria solitudine fredda, ghiacciata. Non ci volle più ragionare su. Era troppo stanca. Si girò col fare determinato. La casa era sporca, segnata dalla polvere dell’abbandono. Erano trascorsi tanti anni senza che nessuno se ne rammentasse. Avrebbe dato una bella pulita e poi si sarebbe lasciata riposare in un lungo sonno fino all’indomani. Ne aveva bisogno. Pensare ai vecchi momenti passati lì dentro la faceva rattristire.
Andò a togliere il lenzuolo bianco che copriva il divano. Tossì leggermente per via della polvere alzata. Notò immediatamente incastrata alle estremità dell’angolo una vecchia foto a colori tenui, ormai del tutto sbiadita. Era lei con Salvatore, il suo primo, unico ragazzo avuto prima della partenza per Bologna. Strano che quella foto si trovasse proprio lì, era come se quella giornata complicata avesse deciso di costringerla a far fronte ai propri ricordi, che facevano male.
“Non posso stare con te, parto, vado al nord. Studierò medicina. Vado Adele. Non mi pensare più. Io e te non possiamo avere un futuro. Mi dispiace! Ti voglio bene, ma i miei non accettano l’idea che io mi sposi con te. (Non vogliono che sposi una “bastarda”). Così dice mia mamma. Sono mortificato Adele, ma non riesco ad andare contro la volontà dei miei! Ti prego di non odiarmi! Addio!”.
Furono queste le parole con cui Salvatore la lasciò dopo due anni di frequentazione, nella primavera del lontano 1993, quando lei aveva soltanto diciotto anni e lui qualcosa di più. Erano molto giovani e lei sapeva che molto probabilmente il loro amore, anche se molto intenso, sarebbe stato destinato a finire prima o poi. Ma il modo in cui Salvatore la lasciò le fece congelare il sangue, la segnò per sempre con il marchio della più profonda delusione, fece sì che il suo essere subisse una brusca metamorfosi e lei divenne di colpo parecchio apprensiva, diffidente, distaccata, fredda, ad ogni circostanza, ad ogni futura situazione.
Prese in mano la foto e all’istante nella mente le scorsero come un flashback due anni d’amore. Due anni di bene, avvolti dentro un bel sentimento che poi fu capace di distruggersi e sgretolarsi nell’arco di un incontro. Due anni di sincero amore, di belle emozioni, spenti per sempre, in un’ora.
Si sedette in modo rigido. Si sentì invasa dalla tristezza. Provò dentro di lei tanto forte quel dolore, così come lo aveva recepito molti anni fa.
Ci aveva pensato raramente a quell’incontro. Si era ostinata a non dargli più importanza… ed ecco… che i ricordi affioravano quando meno se li aspettava. Non era possibile staccarsi dal proprio vissuto, impossibile dimenticare!
Involontariamente strinse nel pugno la foto invecchiata dal tempo. L’immagine raggiante del suo volto mentre su uno scoglio stava abbracciata a Salvatore, subì diverse crepe, così come il volto di lui. Si sforzò a non stancarsi più nel rimuginare momenti colmi di rammarico. Decise di gettare la foto nel cesto dell’immondizia. Doveva dare una bella pulita a tutta la casa, rinfrescarla un’ultima volta, prima di consegnare definitivamente le chiavi a qualcun altro.
Entrò nella stanza da letto, aprì la finestra. Turbata dette un’occhiata al grande letto di ferro battuto, posizionato di fronte alla finestra. La avvolse nuovamente una struggente nostalgia. In quel letto aveva consumato la maggior parte delle notti infantili, e anche dopo nella prima gioventù aveva continuato ad addormentarsi spesso e volentieri con sua madre, tutte e due abbracciate, protette dai loro corpi e dalla reciproca presenza. Nonostante avesse la sua stanza, lei non amava coricarsi da sola la notte. La sua cameretta col tempo diventò uno studio. Lei lo sfruttava per buttarsi sui compiti o quando sentiva il bisogno di stare da sola. Adele usava la sua stanza sempre più raramente per dormire, salvo le volte quando delle sue amiche andavano a passare la notte da loro. La madre in quelle occasioni le sistemava nella camera secondaria. Negli anni divenne abitudine che lei occupasse la stanza di Flora e dormisse nel letto con lei. A tutte e due piaceva il fatto di trovarsi assieme durante le ore notturne attorniate da un bel silenzio.
Ancora una volta il flashback dei ricordi divenne spietato, intanto che le attraversava la mente con una velocità inaudita, quasi selvaggia. Si ricordò come in una afosa mattina di giugno nel 1993, si alzò e si trovò suo malgrado spiazzata, terrorizzata, accanto al corpo senza vita della madre.
Dopo soltanto un mese dalla fine della sua storia d’amore, provò ancora una volta più forte e lacerante, il dolore. Perse d’improvviso il bene più grande che aveva, la persona che le aveva dato la vita, che l’aveva protetta in tutto e per tutto. Perse d’improvviso, l’unico, autentico, vero, affetto che conosceva, il suo punto di riferimento. La mamma fu l’unica a non farle mai pesare qualcosa di cui lei non aveva alcuna colpa. Adele non poteva essere giudicata perché non avesse un padre, perché un uomo non l’aveva riconosciuta come figlia. Ma cosa c’entrava Adele, che colpe aveva lei? Eppure il giudizio della gente non ne voleva sapere. La società non perdonava!
In quel preciso istante, quando si trovò suo malgrado di fronte alla cruda realtà e scoprì che era da sola, l’iniziale metamorfosi dell’essere si insinuò ancora di più avvolgendo la sua anima nel guscio freddo della rigidità.
Flora aveva dato tutti i suoi anni alla figlia, dedicandosi in carne ed ossa a lei, e poi silenziosamente se n’era andata per un infarto. Senza soffrire, senza scandire lamenti, se ne era andata fiera, così come aveva vissuto, silenziosa, sempre affianco a sua figlia.
Lanciò un’occhiata veloce all’immagine della Madonnina incorniciata, appesa sul letto. Scacciò via ancora una volta ogni ricordo, era tornata lì soltanto per firmare delle carte. Il passato non le apparteneva più. Adele si considerava distaccata dal suo vissuto precedente. Davanti a lei ormai vi era un’altra realtà. Lei aveva costruito la sua nuova vita, bella agiata, confortevole. Aveva studiato duro e lavorato altrettanto duramente, da quando verso la fine dell’estate nel 1993, circa tre mesi dopo la morte di mamma, prese la decisione di allontanarsi una volta per tutte da quel posto dove ormai non la legava più nulla. Andò via, sforzandosi di lasciare indietro i ricordi di quel vissuto con la promessa di iniziare un nuovo cammino. Cercò di non ricordare più la propria sofferenza. Si vestì anche lei con la stoffa inflessibile della durezza, così come aveva fatto sua madre.
Nessuno l’aveva mai aiutata. Adele raggiunse da sola ogni traguardo, ogni successo, anche il più piccolo. Adesso era una donna in carriera, un noto architetto a Bologna. Viveva in un attico mozzafiato che aveva acquistato da poco. Stava più che bene nella sua vita fatta principalmente di lavoro. Si relazionava con tante persone al giorno, colleghi, clienti, con i quali condivideva idee professionali, soddisfazioni, gratificazioni. E poi nel tardo pomeriggio c’era la sua bella casa ad attenderla, facendo spazio finalmente ad un bel riposo, affiancata dalla completa tranquillità di notti che molto spesso erano solitarie. Aveva un fidanzato, ma non si decideva ad accettare la sua proposta di convivenza. Amava stare da sola. Il silenzio attorno a lei era rilassante e altrettanto rassicurante. Sì, certo, lei era più che soddisfatta, non le mancava nulla. Amava la sua vita.
La stanza si era illuminata. Adele cominciò a svuotare l’armadio ingombrante con dentro ancora diversi capi. Avrebbe buttato tutto. Inutile caricarsi di vestiti passati di moda. Avrebbe chiuso in scatole tutto il vestiario, ogni sopramobile ancora esistente in casa.
Si stava dando da fare con le pulizie quando sentì squillare il cellulare.
C’era Andrea al telefono, il suo storico uomo. Al suo arrivo a Bologna per tanti anni si era allontanata da ogni tipo di divertimento. Aveva studiato duro, lavorando parallelamente part-time in un supermercato per quasi sei anni. Dopo si era laureata in architettura e subito dopo aveva aperto il suo studio. Conobbe Andrea già nei primi tempi che esercitava la professione. Lui fu uno dei suoi tanti clienti. La loro relazione cominciò piano, trasformandosi dopo tanti mesi che era esistita semplicemente come amicizia, in un legame stabile, solido anche. Sapeva che Andrea le voleva bene ed era affezionato a lei. Adele era una donna attraente. Aveva un bel corpo, era alta, begli occhi azzurri, capelli castani, uno sguardo premuroso ma anche timido. Si poteva definire una donna abbastanza carina. Ma sempre fredda e distaccata. Quel tipo di comportamento aveva imparato ad assumerlo prendendo come esempio la madre.
“Che fai?” domandò la voce di Andrea.
“Niente, stavo mettendo ordine nei vecchi armadi. Devo selezionare tutto prima di domani. I mobili li lascio in casa. Il proprietario può tenere ciò che ritiene opportuno, il resto se lo può buttare via”.
“Sarei potuto venire a darti una mano. Sei sempre la solita, non accetti mai che qualcuno ti aiuti. Lo sai che lo avrei fatto volentieri”.
“Sì, lo so questo! Ma non c’era bisogno. Ero sicura di cavarmela da sola. Non ho tanto tempo per stare al telefono. Sono distrutta, Andrea. Mi do una mossa per sbrigare prima possibile i lavori qua, poi mi metto a letto a riposare. Domani non appena concludo le pratiche dal notaio, riparto. Ti richiamo io quando mi metto in viaggio”.
“Ciao allora, riguardati… un bacio!” le disse Andrea e chiuse il telefono senza che lei aggiungesse altro. Sapeva che Adele non amava particolarmente lasciarsi prendere dalla tenerezza, raramente pronunciava parole affettuose. Era una donna intelligente, in gamba, spesso molto disponibile e che non si tirava indietro quando occorreva aiutare qualcuno, ma paradossalmente, anche altrettanto riservata.
Tuttavia a lei dispiacque il modo brusco che Andrea ebbe nel concludere la conversazione. Avrebbe voluto regalargli un bacio pure lei. Strano! Non era una donna che esternava eccessi di affetto, li considerava sdolcinati. Forse trovandosi in mezzo a vecchi ricordi, stava diventando un tantino suscettibile pure lei. Capitava sempre di sentirsi ammorbidire i sensi scavando nel passato. Certi ricordi, seppur malinconici, erano sempre belli; erano parte di te, incessantemente!
“Lasciati andare ogni tanto, dimmi tutto ciò che provi. Io ti amo, ma mi sembra come se tu non ti dai completamente, non mi fai mai capire fino in fondo i tuoi sentimenti, le emozioni che provi. A volte mi sembra persino che tu ti sforzi a non provarle. Essere tanto forti non è sempre bello, a lungo andare si finisce per essere infelici”.
Così le aveva detto una volta Andrea. Lui era un bell’uomo, della sua stessa età, divertente, simpatico, premuroso. Andavano d’accordo loro due. C’era stima e affetto reciproco. Lui le aveva manifestato più volte il proprio sentimento, le aveva detto di amarla, di voler trascorrere la vita con lei.
“Noi siamo fatti l’uno per l’altra”, aveva confessato una volta Andrea dopo aver finito di fare l’amore.
“Lo percepisci anche tu quanto siamo affini, vero?”.
Adele non aveva risposto, si era limitata solo ad un lieve sorriso. Oh sì che lo sapeva, la loro complicità era ovvia, in tutto e per tutto. Lui sempre più spesso si insinuava a ripetere la voglia che aveva di formare una famiglia con lei.
“Non siamo più adolescenti ormai, dobbiamo far capitolare la nostra voglia di vivere da soli. Dovrebbe essere bello legarsi più profondamente in un legame, prima o poi lo fanno tutti. Perché noi dobbiamo essere un’eccezione alla regola!”.
Sorrise al pensiero di quelle parole che lui sempre più spesso esprimeva come di sfuggita, senza mai risultare pesante.
Anche se ultimamente Andrea stava diventando un pochino più insistente… Adele tuttavia non si convinceva al fatto di doversi per forza sposare e neanche a quello di provare solamente a convivere. Non sapeva nemmeno lei il perché. Amava Andrea. Ormai dopo tanti anni ne aveva la sicurezza. Lui era un brav’uomo, gestiva una sua libreria e svolgeva con grande passione il suo mestiere di libraio. Era un buon lavoratore, una persona onesta, assolutamente affabile. Senza ombra di dubbio sarebbe stato un marito ideale e un padre perfetto. Adele avrebbe voluto tanto accontentarlo nella sua richiesta, ma qualcosa le impediva di fare quel passo. Lei stava bene da sola, non le serviva un uomo che dormisse accanto a lei ogni notte; stava bene così, aveva tutto ciò che potesse desiderare. Adele aveva imparato a bastarsi!
Per l’ennesima volta quel giorno scacciò via ogni pensiero perturbante. Si concentrò pienamente ad ordinare e rendere vivibile più che si potesse la casa. Non ci teneva a fare brutte figure con i propri paesani. Si diede da fare per ore, fino al pomeriggio inoltrato. Dopo fece una doccia veloce, cambiò le lenzuola e si concesse un sonno profondo.
Si strappò al sonno senza che lo volesse, quando era notte fonda. Nonostante gli sforzi fatti per potersi riaddormentare, le risultò impossibile. Gli occhi non si chiudevano più. Fu come se qualcosa o qualcuno la avesse obbligata ad allontanarsi da lei. Si girò diverse volte nel letto, poi decise di alzarsi. Accese la lampada sul comodino. Era l’ultima notte che passava in quella stanza. All’arrivo del giorno la casa non sarebbe stata più sua, l’avrebbe ceduta. Provò forte dispiacere. Non si capacitò del perché di quel grande rammarico. Adele era una donna tosta, determinata, sicura delle proprie scelte. Lei non soffriva di inutili nostalgie. Con mosse ansiose aprì il cassetto del comodino. Non comprese nemmeno il perché di quel gesto. Col proprio stupore vide che dentro c’era un vecchio cd. Quante volte aveva ascoltato le canzoni contenute al suo interno mentre si arrendeva ai sogni, lei da sola nel letto o in compagnia della madre. Ma quanti ricordi si stavano risvegliando in lei. Perché d’improvviso stava diventando tanto nostalgica? Quali erano le sensazioni che le stava trasmettendo la vecchia casa? Alla fine comprese che per quanto poteva cercare di allontanarsi dal passato, quello, prima o poi avrebbe trovato il modo per attaccarla. Il trascorso aveva un’arma molto potente a sua disposizione, i ricordi. Loro furono sufficienti per importunare ancora la quiete della notte, riuscirono a violare senza grande sforzo la sua tranquillità. Il passato ti piombava di fronte in modo inevitabile e bisognava essere preparati ad affrontarlo, a provare a capire cosa ti aveva donato, nel bene e nel male. Ci volle veramente poco perché i ricordi si diffondessero nuovamente. Per far affiorare gioie dimenticate le era bastato trovare per caso, nascosto in un cassetto, un vecchio cd.
Le passò in mente quando spensierata canticchiava quelle canzoni, rise da sola al pensiero di come si dava da fare per non stonare e seguire più possibile il ritmo dei ritornelli. Pensò agli occhi della madre divertiti mentre la osservavano. Si intenerì al pensiero suo e a quello di mamma che univano le loro voci al suono della musica. Quanti bei momenti. Attimi che ad un primo sguardo potevano risultare talmente normali, senza alcuna consistenza emotiva particolare. E invece erano stati fortemente piacevoli, incredibilmente affascinanti, magici a tal punto da risultare incancellabili. Erano stati attimi di vita vissuta, di emozioni indescrivibili, marcati da una squisita normalità, che non voleva essere per forza perfetta, impeccabile, ma nonostante le tante imperfezioni, era stata in ogni caso… bella. E adesso dopo tanti anni passati lontani dalla propria casa, ne aveva la piena certezza. Serviva del tempo per poter valutare la vera importanza di certi vissuti.
Perché si era ostinata con tanta cocciutaggine a scappare dal proprio passato? Perché si era distanziata così velocemente dalle memorie degli anni infantili, dai ricordi della prima gioventù? Aveva sofferto durante quegli anni. Convisse sempre con lo strazio che da un momento all’altro poteva sentirsi dire che era la figlia di una ragazza madre! Aveva provato bruscamente il gusto amaro della delusione, quando si sentì dire che veniva lasciata, che stava per essere abbandonata, perché non aveva un padre! Ma quale colpa aveva lei?
La sofferenza che aveva provato in quella lontana estate fu tanta. Sapeva che nel paese lei e la madre erano viste con un occhio diverso, e le era fin troppo chiara anche la ragione. Il fatto di essere cresciuta senza avere un padre fu causa di tante discriminazioni che comportarono esclusioni perfino nelle sue amicizie. Niente fu facile per lei in quegli anni, ma il dolore che provò nel momento in cui venne lasciata perché “bastarda” non avrebbe mai potuto descriverlo a parole.
Eppure adesso che prese la forza di affrontarsi con il proprio vissuto, capì quanto bene aveva, a sorpresa, custodito la sua anima, quanto amore aveva ricevuto e quanto ne aveva donato. Volle poter tornare indietro soltanto per pochi minuti, per poter ascoltare la voce di mamma. Quegli anni adesso le sembravano stupendi e, purtroppo, col senno di poi, irraggiungibili. Oh quanto avrebbe voluto sfiorare la pelle di sua madre, i suoi occhi inespressivi di giorno e affettuosi la sera! Il vecchio stereo stava sul comò. Adele mise dentro il cd. Si sedette di nuovo sul letto, appoggiata sul cuscino. Immobile si mise in ascolto delle sue canzoni. Con lo stupore che si accaniva sempre di più, notò che stava piangendo! Il fatto sembrava quasi inverosimile! Lei non piangeva quasi mai… Si era giurata di essere forte, e aveva mantenuto la promessa fatta!
Mentre stava appoggiata sul cuscino le sembrò di vedere sua madre che si buttava addosso la cipria borotalco. La usava sempre. Ogni sera dopo aver fatto la doccia, Flora metteva sul collo e sotto le ascelle il borotalco.
“Io non mi fido di quelle cose che usate voi. I deodoranti non sono naturali, fanno male. Dai retta a me, usa il borotalco, è così buono!” le diceva la mamma quasi ogni sera le stesse cose, cercando di dare nel suo piccolo alla figlia consigli utili.
Adele rideva sempre al suono di quelle parole. Non usò mai il borotalco, ma la figura della madre quando la sera la metteva sulla sua bella pelle bianca, era tutte le volte incantevole. Com’era stata bella sua mamma!
Ebbe la percezione come se quel morbido odore rilassante, rasserenante, che emanava il borotalco, si espandesse in aria. Era proprio come se nelle sue narici si insinuasse il delicato odore che spesso la accompagnava nelle notti vissute accanto alla mamma. Quell’odore lo associava a lei.
Per quello era così buono, pulito, così tanto puro… cosa andava a pensare! Bastardi ricordi!
Solitamente riusciva a liberarsi di loro, ma quella notte non ce la faceva più a staccarseli di dosso! Piangeva ancora. Pulì il viso dalle lacrime e andò a trafficare nella cassapanca che si trovava all’entrata. Era lì dentro che la mamma conservava tutte le fotografie. Iniziò a guardare i suoi album da piccola, poi quelli più recenti, poi altri ancora. Gli album si fermavano all’anno 1993! Da allora Adele, da sempre appassionata di foto, non ne aveva più sviluppate. Quanta vita c’era dentro quegli album, che poi lei aveva deciso di abbandonare. Con determinazione e grinta, si costruì una nuova vita, lontana dal suo piccolo paese pieno di pregiudizi dove crebbe sentendo ogni volta su di lei sguardi di disapprovazione. Adele riuscì ad andare oltre. Si impegnò negli studi e divenne un bravo architetto. Con i pochi risparmi che le lasciò sua madre si stabilì a Bologna dove divenne autonoma e prese in mano la sua vita, dove realizzò i sogni inizialmente prestabiliti. Ma, come la madre le aveva insegnato, lei non si fidò mai! Non diede confidenza in eccesso a chi le stava intorno, nemmeno al suo uomo. Adesso si rendeva conto che neanche ad Andrea permise mai di oltrepassare certi limiti.
Guardava le foto e piangeva ancora. Non ci credeva neppure lei. Tutti la conoscevano come una donna forte, che non si piegava mai, capace di affrontare ogni controversia, e a lungo andare finì per crederci perfino lei.
Ma non era affatto vero! Adele, aveva imparato ad indossare la maschera dell’imperturbabilità, dell’indifferenza, così come aveva fatto sua madre. Si era ricostruita trasformando il proprio essere, e questo per la semplice ragione di proteggersi, di tutelarsi dai preconcetti, dalla cattiveria, che a volte l’aveva scoperta veramente spietata. E così si era decisa di non voler più soffrire. In una sola estate perse il suo amore nel peggiore dei modi, e poco dopo, sempre crudelmente aveva perso anche la madre. Pianse tanto quell’estate, ma dopo promise a se stessa di non farlo più, si promise di essere forte se voleva sopravvivere in un mondo crudele. E ci era riuscita benissimo… ma, era arrivato il momento di fare i conti con il proprio passato. Non poteva scappare! Per paura di soffrire aveva abbandonato i suoi ricordi che erano così belli… così magicamente incantevoli, erano la sua vita!
Smise di piangere e si sedette sulla cassapanca. Ma come mai aveva pensato ad abbandonare quel mobile tanto caro. Quante volte si era seduta sopra la sua cassapanca quando provava timore di raccontare alla mamma un brutto voto preso a scuola! Quel mobiletto l’aveva confortata in tantissime occasioni. Lo sentiva parte di lei. Lo avrebbe preso con sé, così come le sue foto, e anche diversi abiti di mamma.
Non poteva negarsi al passato. L’abbandono di un pezzo di vita non era la soluzione. Si era negata fin troppo ai piaceri quotidiani per paura di soffrire. Non aveva avuto una vita facile, questo sì, ma adesso capiva l’enorme sbaglio fatto. Dopo la morte della madre si era chiusa nel suo guscio che pian piano la avrebbe isolata dentro le mura della solitudine, fatta di dubbi, di angosce e preoccupazioni.
“Prova a liberarti, mi piaci quando sei disinvolta, ti devo fare ubriacare prima o poi. Voglio vedere i tuoi begli occhi finalmente sollevati. Ti vorrei vedere addormentata serenamente vicino a me! Prova a darmi completa fiducia. Sono così tanti anni che stiamo insieme! Non riesco più nemmeno a contarli”.
Andrea le aveva parlato in questo modo in una delle tante serate trascorse assieme. Lui aveva ragione, non era facile concedersi, aprirsi al mondo, ma con qualcuno bisognava pur farlo. Eppure Adele non ebbe mai il coraggio di dirgli quanta paura celava nell’anima. Dava l’impressione di essere così forte e invece tutta la sua freddezza, non era altro che paura, timore di perdere ciò che più amava. Fu per quello che appena partì per Bologna si giurò di non affezionarsi più a nessuno. Non voleva provare ancora la delusione che la travolse quando si sentì chiamare “bastarda”. Non voleva più provare la sofferenza che sconvolse la propria vita quando all’improvviso perse il suo punto di riferimento, la mamma. Da allora visse indossando la corazza della freddezza, nell’impassibilità bugiarda. Quanto aveva sbagliato. La paura d’amare le aveva proibito in tutti quegli anni di sentirsi libera, di godere in pieno i suoi giorni. No, lei non era felice come voleva far credere agli altri, come voleva far credere persino a se stessa! Ma adesso aveva capito.
In quella notte per la prima volta dopo anni, si svolse il silenzioso dialogo tra lei e le proprie emozioni. Complici furono i suoi ricordi. Successe tutto nella lunga attesa della notte sommersa dai ricordi. Alcuni strazianti, ma altri meravigliosi, soavi, puri, incredibilmente belli. Era questa la vita, e lei non poteva viverla a metà per paura di deludersi ancora. Poteva succedere che la delusione l’avrebbe nuovamente sfiorata, ma Adele avrebbe affrontato giorno dopo giorno ogni momento, con un’altra prospettiva.
In quell’istante prese la decisione di non escludere più nemmeno la possibilità di andare a conoscere l’uomo che era suo padre. Aveva voglia di capire da dove veniva e di conoscere le proprie radici. Un giorno sarebbe potuto accadere. Doveva confrontarsi con il mondo in una diversa maniera da come l’aveva fatta fino a quella notte.
Appena fosse sorto il sole, sarebbe andata nel piccolo cimitero del paese a salutare la mamma. Avrebbe chiacchierato un po’ con lei e, subito dopo aver firmato le carte, si sarebbe messa in viaggio. Sarebbe tornata da Andrea. Lei voleva così tanto sposarlo, fare dei figli con lui. Era pronta ad affrontare la vita! Non c’era nulla di facile. La vita era una conquista quotidiana e lei ne era consapevole! Avrebbe affrontato con coraggio ogni minimo dubbio, dimostrando le sue fragilità, senza perplessità, non poteva fingere di essere ciò che in realtà non era.
Andrea la amava. Lei si fidava del proprio uomo e sapeva che lui le sarebbe stato accanto anche nei momenti difficili.
La casa si copriva ancora dai suoni cari della sua musica. Stava per sorgere la luce. Che bella notte che fu.
Una notte magica, in attesa della luce, in compagnia di vecchie memorie, di forti momenti emotivi, e anche in compagnia della madre! Sì, lei percepì nell’aria di casa così morbida, fresca, pura, la presenza di mamma.
Cominciò a vestirsi lasciandosi scivolare in movimenti ritmici che seguivano la melodia che si espandeva dallo stereo. Canticchiava la sua canzone e sentiva oscillare i propri fremiti interni al ritmo della musica.
Che bella notte che fu!
Era pronta per uscire. Sarebbe andata a concludere le ultime pratiche per la vendita di casa. Prima avrebbe chiamato qualcuno per trasportare la sua cassapanca. La avrebbe tenuta con sé a Bologna.
Una volta fuori non esitò a voltare la testa per dare un’ultima tenera occhiata alla modesta casetta. Le sembrò tanto carina, stupenda. Gli anni trascorsi lì dentro non aveva potuto cancellarli.
“Per fortuna!” pensò.
Prima di entrare in macchina prese il cellulare e con le dita che si muovevano rapidamente scrisse un messaggio.
Sto tornando Andrea. Appena arrivo ci vediamo. Dobbiamo affrontare un bel discorsetto noi due. Sentivo il bisogno di scriverti adesso. Ti amo! A domani, amore!
Intanto infilava il telefonino dentro la borsa, provò ad immaginare lo sguardo sorpreso di Andrea. Si perse in un sorriso allegro.
Salì in macchina canticchiando sotto voce la sua canzone preferita. Si sentì spogliata da ogni insicurezza. In quella notte fece chiarezza con i dubbi celati dentro di lei, con le proprie paure.
E per la prima volta dopo tanti anni, osò pensare che forse… era veramente felice!