Tante storie magiche
ICE FORCE ONE – LA SORELLA SU GHIACCIO
Un racconto di Simona Maria Corvese
“Nessuno mi ha mai voluto ma ora so di avere una sorella su ghiaccio e non sono più sola… solo non chiedetemi di avere fiducia nelle persone”- Asiya.
“Nessuno mi ha mai voluto ma ora so che qualcuno crede in me e non sono più solo… ma non chiedetemi di avere fiducia in questo maledetto mondo!” – Daniel.
Asiya è un talento nel pattinaggio sincronizzato, Daniel un talento dell’hockey su ghiaccio. Tutti e due hanno un passato difficile alle spalle che ha segnato indelebilmente la loro capacità di fidarsi degli altri… un vero problema, questo, soprattutto se pratichi a livello agonistico sport di squadra come il pattinaggio sincronizzato e l’hockey su ghiaccio. Daniel, a causa delle sue intemperanze, è stato sospeso per motivi disciplinari dalla sua squadra. Dovrà dimostrare di sapersi integrare in una squadra mista di pattinaggio sincronizzato, cui manca un elemento per partecipare alla prestigiosa “Mozart Cup” a Salisburgo, se vuole essere riammesso nella sua squadra.
Salisburgo è una meta ambita anche da Daniel, perché è la sede dei “Red Bull Ice Hockey” ma che beffa sapere che non andrà lì nella veste di giocatore di hockey.
Daniel e Asiya due facce diverse della stessa medaglia… dello stesso problema: la mancanza di fiducia.
Questo racconto, adatto a un pubblico adulto ma anche a ragazzi, è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza con fatti o località reali o con persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.
“Ice Force One – La sorella su ghiaccio”, copyright © 2018-2019 Simona Maria Corvese.
“Tu sei cattiva e farai ammalare la nonna… e poi non so neppure se sei mia nipote. Mio figlio non ti ha riconosciuta”.
Cosa voleva dire la nonna? Cosa significava riconosciuta? Tutte le volte che suo padre la portava a casa dei nonni nel week end quella frase si ripeteva e ad Asiya veniva da piangere, anche se non comprendeva bene il motivo della tristezza che provava. Quel sabato il ragazzo che chiamava papà aveva giocato a nascondino con lei qualche minuto poi se ne era andato.
“Dove si è nascosta Asiya?”, diceva ma era durato talmente poco quel gioco.
Asiya adorava nascondersi e ancor più essere cercata perché “Se mi cerchi, allora sono importante per te. Se mi cerchi, allora ci tieni a me”.
Per lo stesso motivo si era messa a correre per tutta la casa, poco prima, invitando con lo sguardo la nonna a rincorrerla. “Se mi corri dietro, allora ci tieni a me”. Ma lei si era spazientita e le aveva dato quella risposta, incomprensibile a una bambina di quattro anni.
La nonna si era arrabbiata, o forse era stanca. O forse non le voleva bene.
Mamma avrebbe trascorso il fine settimana con il suo nuovo fidanzato. Papà avrebbe fatto la stessa cosa con la sua nuova fidanzata. In ogni caso non c’era posto per Asiya.
Continuando a provare una malinconia che non riusciva a capire, Asiya si allontanò dal salotto. I nonni si erano accomodati sul divano a guardare il telegiornale e lei cominciava ad avere sonno. Fece qualche passo fino al corridoio, poi si sdraiò sul pavimento con il suo coniglietto di peluche fra le braccia, addormentandosi.
“Che cosa fai per terra? Indossi già il pigiama! Così lo sporcherai e poi non si dorme per terra!”, gridò la nonna facendola svegliare di soprassalto.
Asiya strinse ancora più forte a sé il suo coniglietto, strofinandosi gli occhietti pieni di sonno con le nocche delle dita.
“Ma nonna Lollena me lo lascia fare”, rispose con sincerità disarmante.
“Non mi interessa che cosa ti lascia fare nonna Lorena: non si dorme per terra. Forza, alzati e vai nel tuo letto”, rispose spazientita la donna.
La accompagnò fino alla porta della camera da letto nuziale, dove era stato sistemato un lettino da campo provvisorio.
Asiya salì sulla sedia posta di fronte alla sponda del letto, la scavalcò e si sistemò sotto le coperte. Nonna Agata le rivolse un frettoloso ‘buona notte’ ma non la baciò. Con altrettanta fretta si allontanò dalla stanza.
Asiya non osò chiederle di rimanere un po’ con lei. Aveva paura del buio e nella stanza non c’era la lucina della notte che la mamma le metteva in cameretta tutte le notti. Rivolse lo sguardo verso il corridoio, da dove proveniva la luce azzurrognola del televisore e la paura si attenuò. Prima di cedere al sonno sentì la voce della nonna. L’appartamento era minuscolo ed era facile sentire i nonni parlare quando erano in salotto. “Settimana prossima non la voglio qui. Abbiamo già i figli di Sara. Almeno quelli siamo sicuri che siano i figli di nostra figlia. Questa qui non sappiamo se è veramente figlia di Andrea”.
Asiya strinse ancora più forte a sé il suo coniglietto. Nella penombra intravide il modellino della barchetta a vela che i nonni tenevano sul comò. Com’erano belle quelle vele bianche spiegate, pensò e il desiderio di salire un giorno su una vera barca a vela la distrasse per qualche secondo.
Provando un magone che non riusciva a spiegare, Asiya si abbandonò al sonno piangendo, pensando alla sua mamma e sognando una barchetta che scivolava sulla superficie calma del mare. Una barchetta che avanzava inesorabilmente verso il buio.
Asiya continuò a sentirsi per anni una barchetta che avanzava lentamente verso una notte buia e la sua situazione familiare non cambiò. La madre e il padre erano troppo impegnati a ricostruirsi una vita sentimentale con i rispettivi compagni per accorgersi di lei. Un giorno a scuola, quando aveva 8 anni, si sentì così triste che, a pranzo, mangiò ben 5 michette. La sua maestra notò l’accaduto e le chiese il motivo della sua tristezza. La bambina raccontò tutto, soprattutto della sua tristezza, del suo desiderio di affetto e del copione che si ripeteva, ormai da anni, a casa della nonna.
La maestra chiamò la mamma e le espose la situazione. La madre si scusò ammettendo di non avere tempo a sufficienza da dedicare alla figlia perchè era una donna sola. Una donna ancora giovane, che stava cercando di ricostruirsi una vita sentimentale.
“Asiya avrebbe bisogno di socializzare di più con altre bambine”, spiegò la maestra “C’è una mia amica che è istruttrice di una squadra di pattinaggio sincronizzato. È uno sport che farebbe molto bene ad Asiya. È molto formativo: la squadra diventa un punto di riferimento importante, un rifugio amico, un mezzo di confronto con le altre atlete e può diventare uno stimolo quando la bambina si sente demoralizzata”, spiegò la donna durante il colloquio a scuola.
“La ringrazio, sembra molto bello ma non possiamo permetterci uno sport costoso come il pattinaggio”, replicò la donna.
La maestra le spiegò che tutti gli anni veniva riservata una borsa di studio a una ragazza che si trovasse in una situazione disagiata e Asiya aveva tutti i requisiti per beneficiarne.
Fu così che Asiya divenne un’atleta di “Ice Force One”, la società sportiva agonistica che aveva costituito due squadre omonime: “Ice Force One Synchronized Skating” e “Ice Force One Ice Hockey”. La bambina si ambientò subito bene e strinse un forte legame di amicizia con le altre piccole atlete della squadra.
“Sono tutte simpatiche le bambine”, raccontava alla mamma quando tornava a casa dagli allenamenti “ma Marta è la mia socia, la mia sorella su ghiaccio”.
“Che cosa significa che è la tua sorella su ghiaccio?”, le chiedeva la mamma mentre alla sera pranzavano tutte e due insieme al tavolo della cucina.
“La mia socia è la bambina con cui faccio coppia nelle figure su ghiaccio. Marta è anche la mia sorella su ghiaccio perché quando ha iniziato a pattinare faceva gli stessi errori che faccio io, poi è diventata così brava che ora è il capitano della squadra!”, spiegava Asiya in termini entusiastici. Marta era diventata anche la sua amica del cuore: una vera sorella su ghiaccio.
Sua madre guardava con tenerezza la sua bella bambina dai capelli castani e gli occhi blu, seduta su una sedia da cui non riusciva ancora a toccare con i piedi per terra. Era contenta che la tristezza della bambina si fosse attenuata da quando aveva intrapreso quello sport. Questo attenuava i suoi sensi di colpa per il modo egoistico in cui le voleva bene. Sapeva di avere il diritto di ricostruirsi una vita sentimentale. Sapeva di sbagliare, affidando spesso e volentieri la bambina ad estranei o alla nonna paterna. Pur tuttavia non trovava un altro modo di vivere quella situazione.
Passarono gli anni, uno simile all’altro e, quando Asiya compì 18 anni, la madre le rivelò di voler lasciare Prato All’Alpe, il paese di montagna nelle Alpi lombarde dove avevano vissuto fino a quel momento, per traferirsi a Milano con il suo compagno. “Lì ci sono più occasioni di lavoro. Vieni anche tu con noi, Asiya. Non vorrai passare tutta la vita a fare l’aiuto in pasticceria. La pasticceria potrebbe chiudere da un giorno con l’altro e tu cosa faresti?”.
Asiya aveva appena finito la sua giornata di lavoro e stava camminando accanto a sua madre lungo un sentierino sterrato ai margini del paese, che portava alla loro abitazione. Era novembre e quella sera la prima neve della stagione aveva iniziato a cadere copiosa.
“Ma mi piace il mio lavoro e gli affitti a Milano sono carissimi”, replicò Asiya, sapendo che avrebbe dovuto darsi da fare a trovare una soluzione abitativa per conto suo a Milano. Fino a quel momento aveva vissuto in casa con sua madre perché era minorenne ma la donna le aveva rivelato l’intenzione di andare a vivere con il suo nuovo compagno non appena lei avesse raggiunto la maggiore età. La sua presenza sarebbe stata mal tollerata dalla coppia, esattamente come era stato in tutti quegli anni. Suo padre e sua madre l’avevano sempre fatta sentire un incidente di percorso, mai desiderato. “Tutte le mie amicizie sono qui. La pista olimpica è qui e anche la mia squadra è qui. A Milano non conosco nessuno”, rispose la ragazza stringendosi il collo del maglione di lana davanti alla bocca e provando un senso di vuoto. “E poi a gennaio partecipiamo alla Mozart Cup a Salisburgo. Ci tengo moltissimo, mamma. Tutta la mia vita è qui. Non andartene mamma. Il lavoro non ti manca. Rimani ancora un po’ qui con me”, la supplicò Asiya ma la sua richiesta non fu ascoltata.
Sua madre aveva già deciso tutto egoisticamente, senza tenere in conto le esigenze della figlia. In realtà aveva già organizzato da tempo la sua partenza. Di lì a 15 giorni partì con il suo compagno per Milano. L’affitto dell’appartamento in cui vivevano era pagato per ancora 2 mesi e Asiya avrebbe avuto tutto il tempo di cercarsi una nuova inquilina, oppure di cercare una nuova soluzione.
La soluzione arrivò provvidenziale quando Marta, la sua sorella su ghiaccio, le comunicò che era stata assunta come impiegata alla reception dell’hotel che aveva in gestione la pista olimpica di pattinaggio su ghiaccio. Aveva avuto anche la possibilità di prendere in affitto, a un prezzo di favore per i dipendenti dell’hotel, una suite. Con un’unica mossa Marta aveva trovato l’indipendenza economica ed era andata ad abitare da sola. La ragazza propose ad Asiya di andare ad abitare con lei. Avrebbero condiviso le spese di affitto della suite, di gran lunga inferiori all’affitto dell’appartamento dove viveva Asiya.
Asiya non esitò ad accettare, benedicendo nel suo cuore la sua sorella su ghiaccio.
Tre anni dopo. Era una fredda mattina di inizio novembre e il negozio non era ancora aperto. Asiya stava lavorando al banco della pasticceria disponendo nei vassoi i pasticcini appena sfornati, quando una lavorante del negozio le diede una gomitata per attirare la sua attenzione. Per poco Asiya non fece cadere le dolci prelibatezze che aveva tra le mani.
“Mio Dio, è tornato!”, mormorò la donna. Asiya alzò lo sguardo in direzione della porta sul retro del negozio. Davanti a lei si stagliava la figura di un ragazzo molto alto, con due spalle larghe da sportivo, i capelli castano chiari mossi e lunghi appena oltre le orecchie. Aveva due occhi azzurri, quasi blu, dallo sguardo arrabbiato. Aveva notato la curiosità delle due donne e non gradiva essere fissato. Lanciò un’occhiataccia alla collega di Asiya, che distolse immediatamente lo sguardo, tornando al suo lavoro.
Il ragazzo si avvicinò ad Asiya con passo deciso. Asiya, istintivamente arretrò di fronte all’irruenta sicurezza della sua falcata.
“Sono Daniel. Ti hanno telefonato ieri per avvertire che sarei passato questa mattina a ritirare dolci e brioche per i clienti dell’hotel. Se mi dai una mano a caricare, facciamo prima. Ho il furgoncino davanti all’entrata”, le disse ruvido, senza troppi complimenti.
Asiya annuì. Fece cenno alla collega di continuare il suo lavoro e andò nel laboratorio sul retro. Ne uscì poco dopo con alcune scatole di cartone ingombranti, impilate una sopra l’altra.
“Queste sono le torte e i pasticcini”.
Senza dire nulla, Daniel le si avvicinò e le tolse dalle mani alcune scatole.
Uscirono e le caricarono sul furgoncino dell’hotel, andando avanti e indietro tre volte.
“Passerò ancora domani mattina per l’ordine di giornata”, le disse secco chiudendo lo sportello del furgone.
Asiya annuì ma non fece in tempo a salutarlo perché le aveva già voltato le spalle ed era salito sul suo mezzo.
La ragazza rimase ferma qualche istante a guardare il furgoncino allontanarsi, stringendosi il cappotto addosso. C’era un’aria gelida e l’inconfondibile odore di un’imminente nevicata. Incamminandosi verso il retro della pasticceria non poté fare a meno di pensare allo sguardo di quel ragazzo: era l’espressione di chi è indurito dalla vita ma una profonda tristezza faceva capolino dietro la maschera di disincanto.
Rientrata nel negozio riprese il suo lavoro ma la collega di prima la interpellò subito. “Mio Dio, non credevo che Daniel sarebbe mai tornato da queste parti…”.
“Perché mai? Suo padre non ha venduto la casa che ha in paese”, replicò Asiya, intenta a disporre i pasticcini sul vassoio.
“Come, conosci Daniel?”, le chiese stupita la donna.
Asiya annuì. “Lo conosco di vista. Quando frequentavo la scuola di pasticceria nel paese vicino c’era anche lui ma era due classi avanti di me. Non ho mai avuto modo di parlarci direttamente ma era tra i volti che incontravo tutti i giorni, anche sul pulmino che ci portava a scuola”, spiegò “Poi a un certo punto non l’ho più visto. Ho saputo che suo padre era stato assunto come capo cuoco da un importante hotel di Milano, così ho pensato che Daniel lo avesse seguito”.
“Mia cara le cose non sono andate proprio così, sai?”, le rivelò la donna mentre l’aiutava a disporre i pasticcini in vetrina. Aveva l’aria di chi la sapeva lunga e moriva dalla voglia di raccontarle il pettegolezzo che girava in paese.
“I suoi genitori si sono separati e la madre è tornata a vivere in Scozia con il suo nuovo compagno. Il padre si è dedicato alla carriera di chef stellato e alle numerose amiche che gli giravano intorno. Daniel è stato iscritto alla scuola alberghiera ma pare che il ragazzo fosse abbandonato a se stesso”, spiegò la donna con una punta di malizia e auto compiacimento per il semplice fatto di essere a conoscenza di quelle indiscrezioni. Le voci attendibili che erano trapelate in paese riferivano che, a un certo punto, Daniel aveva coltivato cattive amicizie ed era finito in una banda di ragazzi che rapinavano i negozi. Era finito in riformatorio per aver commesso furti e atti di vandalismo in due supermercati. Le telecamere dei pubblici esercizi lo avevano ripreso senza orma di dubbi.
Asiya guardò costernata la collega, incapace di proferire un commento.
“Si dice che durante una delle due rapine abbia anche malmenato il proprietario del negozio mandandolo in ospedale”, le confidò la donna. “In poche parole Daniel è stato un ospite del Beccaria, Asiya”.
Asiya provò disprezzo per quella pettegola che godeva nel diffondere con malignità informazioni sulla vita privata di un’altra persona. Provò anche dispiacere per Daniel perché ben sapeva quali danni potesse causare la povertà affettiva.
‘Irma la chiacchierona’, così la chiamavano tutti in paese, proseguì il suo racconto. Rivelò ad Asiya che Daniel, una volta uscito dal Riformatorio, era stato seguito dai servizi sociali. Per un po’ aveva lavorato nel laboratorio artigianale di panettoni il cui proprietario teneva corsi professionali al Beccaria. Daniel era stato uno dei suoi allievi più promettenti. Uscito di prigione gli era stato offerto un posto di lavoro, che aveva prontamente accettato.
“E la scuola alberghiera?”, chiese Asiya.
“Che io sappia non l’ha mai portata a termine”, rispose secca la donna, continuando a passare i pasticcini ad Asiya, che li disponeva sul vassoio. “Adesso, Dio solo sa perché, è tornato a vivere qui in paese. Quel ragazzo è violento. Pare che abbia dato in escandescenze con il proprietario del laboratorio di panettoni e che abbia perso il lavoro. Il proprietario dell’Hotel era un amico d’infanzia del padre e lo ha assunto come tutto fare, certo che, se farà qualche colpo di testa, il padre interverrà pagando i danni”.
La donna spiegò che i servizi sociali, per arginare la sua violenta aggressività gli avevano imposto di far parte della squadra di hockey locale. Daniel era un ottimo giocatore di hockey e quello sport era perfetto per reintegrarlo socialmente e aiutarlo a convogliare le energie della sua rabbia in modo positivo.
“Quel ragazzo ha dei momenti di collera incontenibili. L’allenatore della squadra è un grand’ uomo e sa come tenere a bada Daniel e i suoi incontrollati sfoghi”.
“Secondo te perché è tornato qui?”, la interruppe Asiya, esasperata dal pettegolezzo della donna.
“Ah, non chiederlo a me, tesoro”, rispose questa stringendosi nelle spalle.
Asiya tornò nel laboratorio sul retro a prendere un’altra placca di pasticcini appena sfornati e non poté fare a meno di pensare che forse Daniel era tornato a Prato All’Alpe per lo stesso motivo per cui lei non aveva mai voluto andarsene da quel paese. Perché, nel bene e nel male, quello era il luogo dove avevano trascorso la loro infanzia e dove avevano trovato amicizie vere che avevano dato loro conforto, colmando il vuoto affettivo creato dalle loro famiglie.
Quella sera, quando Daniel si presentò agli allenamenti della squadra di hockey su ghiaccio, ricevette una notizia che lo colpì come un fulmine a ciel sereno.
“Questo è il tuo ultimo allenamento, Daniel. Ti devo sospendere. Nell’ultima partita sei stato ripetutamente ammonito dall’arbitro per il tuo gioco violento ed è finita che hai mandato in ospedale un giocatore della squadra avversaria”, gli spiegò l’allenatore dopo averlo chiamato ai margini della pista.
Molti altri giocatori erano già entrati e stavano eseguendo i giri di riscaldamento con le mazze di legno in mano. Altri si stavano esercitando a tirare il dischetto in porta, cercando di eludere l’azione contrastante dell’avversario e quella difensiva del portiere.
“Capo, l’hockey non è un gioco per signorine, nel caso non l’avessi notato”, replicò Daniel con ironia, credendo che l’allenatore stesse scherzando.
“Mi dispiace, Daniel. Fino a quando non imparerai a usare la tua aggressività in modo positivo sei sospeso. Non potrai partecipare neppure agli allenamenti”, rispose serio l’uomo.
“Cosa? Ti stai prendendo gioco di me? Cosa dirai ai servizi sociali? Mi ci hanno messo loro qui!”, rispose Daniel, sempre più adirato, stringendo la mazza di legno nelle mani e serrando la mascella.
Distolse lo sguardo dal volto, serio, dell’allenatore e lo voltò verso gli attaccanti che cercavano di eludere la difesa e avvicinarsi alla porta. Osservare quella sequenza, ripetuta da tutti i giocatori durante l’allenamento, lo calmò. Si stava aggrappando al fatto che i servizi sociali avevano fortemente voluto che lui tornasse a giocare a hockey e che s’integrasse con i compagni di squadra ma aveva capito che l’allenatore non stava scherzando. In quel momento provò rabbia e una grande frustrazione: ovunque andasse, riusciva a deludere chiunque si sforzasse di dargli fiducia. In quel momento aveva aggiunto un’altra sconfitta alla lista dei suoi fallimenti.
“Da ora fino alla fine di gennaio andrai a sostituire l’elemento maschile della squadra di pattinaggio sincronizzato. Il loro atleta si è infortunato. È scivolato su una lastra di ghiaccio in paese e si è rotto una gamba”, gli spiegò l’allenatore.
Daniel proruppe in una fragorosa risata, non credendo alle sue orecchie.
“Non sto scherzando, Daniel. Farai parte di Ice Force One sincronizzato e ti darai da fare, se vuoi tornare ad allenarti con noi. Se dimostrerai di riuscire a usare le tue energie per qualcosa di costruttivo, allora ci rivedremo”.
Negli occhi dell’allenatore capo balenò un lampo di delusione. Non era riuscito ad aiutare Daniel a gestire il suo carattere difficile e scontroso. Il grande talento per quello sport da solo, non era sufficiente a tenere Daniel nella squadra. L’uomo sentì di aver fallito nel suo compito e la decisione di sospenderlo, ben sapendo quanto Daniel ci tenesse a diventare un giocatore professionista di hockey, era un tentativo disperato di dare una svolta a quella difficile situazione.
Gli fece cenno di seguirlo e accompagnò il giovane ai margini della pista.
“Per quanto dovrei stare con la mia nuova squadra?”, chiese il ragazzo fattosi serio, dopo aver avuto la conferma che non era uno scherzo.
“Parteciperai alla Mozart Cup a Salisburgo, a gennaio e, se vedrò che ti sarai impegnato seriamente a far parte di una squadra, allora ti riprenderò. Il tuo è un gioco violento e individualista, Daniel. Il pattinaggio sincronizzato ti insegnerà cosa vuol dire far parte di una squadra: lì non c’è posto per le menti individualistiche. Tutti sono responsabili del proprio talento sportivo ma anche disposti a metterlo al servizio degli altri atleti, per il risultato finale”, spiegò l’uomo, chiedendo a Daniel di restituirgli la mazza, con un gesto della mano.
Daniel non ci vide più dalla collera. Salisburgo? Mozart Cup? Quella gara sportiva si disputava nel tempio dei Red Bull, la famosa squadra di hockey su ghiaccio della città. Era il massimo della beffa: lui avrebbe dovuto essere in quel luogo per una prova di ammissione alla squadra, non a pattinare con una squadra femminile di pattinaggio sincronizzato.
Non riuscendo più a dominare la rabbia, spezzò la mazza da hockey in due, gettandola sul ghiaccio della pista. Furibondo voltò le spalle all’allenatore e fece per uscire ma quello lo fermò.
“Daniel, fermati, non ho finito! Risarcirai il valore della mazza e inizierai stasera gli allenamenti con la squadra di sincronizzato. Fermati sugli spalti: appena dopo che la macchina del ghiaccio avrà rifatto la pista inizieranno i loro allenamenti. Tra poco le vedrai arrivare”. L’uomo gli voltò le spalle e fece per allontanarsi da lui ma si fermò. “Mi hai molto deluso”, gli disse amareggiato.
Daniel si allontanò a testa bassa, sentendosi addosso tutti gli sguardi degli altri compagni di squadra. Tutti avevano assistito all’ennesima dimostrazione della sua incapacità di tenere a bada la collera.
“Dare in escandescenze non è l’unico modo per dire che sei arrabbiato con il mondo, Daniel. Esistono anche le parole per esprimerlo in mille altri modi”, fu l’ultima cosa che si sentì dire dall’allenatore, prima di essere lasciato solo.
Daniel scese negli spogliatoi a togliersi il casco e le protezioni che usava nel suo sport. Tolse i pattini per sfilarsi le ginocchiere e tolse i copri spalle. Indossò di nuovo la maglia della squadra di hockey e sopra una felpa blu. Per ultimi riallacciò i pattini e, prendendo una bottiglietta d’acqua uscì e andò a sedersi sugli spalti. Finì di guardare gli allenamenti e osservò i compagni di squadra uscire dalla pista. Nessuno di loro ebbe il coraggio di alzare lo sguardo verso di lui per salutarlo.
Daniel si sentì tradito dalle persone che aveva creduto amiche e che ora, vilmente, non avevano avuto il coraggio di rivolgergli neppure una parola di conforto.
Di lì a poco arrivò la macchina per rifare il ghiaccio. Daniel la fissò, assorto nei suoi pensieri, come ipnotizzato dal percorso circolare che seguiva sulla pista.
La voce gentile di una ragazza lo distolse.
“Non ti serviranno le protezioni alle spalle nel pattinaggio sincronizzato. Fai ancora in tempo ad andare a toglierle prima che inizi l’allenamento. Avverto io l’allenatore che torni subito”.
Daniel si voltò di scatto, riconoscendo la ragazza che lavorava in pasticceria e con cui aveva avuto a che fare quella mattina.
“Non indosso protezioni. Sono le mie spalle queste!”, le ringhiò, rivolgendole uno sguardo truce.
La sincera espressione di meraviglia della ragazza lo fece prorompere in una fragorosa risata.
“Scusa non mi sono ancora presentata. Io sono Asiya”, disse con voce tremolante la giovane atleta, cercando di dissimulare il motto d’imbarazzo che la risata di Daniel le aveva causato.
“Non ho bisogno del tuo aiuto e, siccome mi sembri una ragazza intelligente, accetta un consiglio: stai alla larga dai tipi come me!”, la ammonì ruvido lui.
“Perché, che tipo sei? A me sembri solo un vichingo arrabbiato e, poco fa, quando nessuno dei tuoi compagni di squadra ti ha salutato, un gigante affranto!”, replicò lei con disarmante sincerità.
Daniel la fulminò con lo sguardo. Dovette ammettere però che quell’esile e aggraziata creatura aveva colto nel segno e aveva avuto coraggio da vendere nel tenergli testa. Di solito la sua imponente statura dissuadeva le persone dall’intraprendere scambi di opinioni discordanti con lui.
In quel momento sopraggiunsero le altre atlete della squadra, la ragazza che aveva assunto il ruolo di capitano e l’allenatore capo.
“Benvenuto, Daniel. Sono felice che tu ti unisca a noi e la tua presenza nella squadra ci è di grande conforto, ora che il nostro ragazzo si è infortunato. Sono certo che il tuo contributo sarà importante per portare la squadra alla Mozart Cup”, gli disse l’uomo, stringendogli la mano. Sapeva tutto di Daniel perché aveva avuto un lungo colloquio con l’allenatore della squadra di hockey. Tuttavia era un uomo senza pregiudizi e voleva dare sinceramente a Daniel l’opportunità di riscattarsi, anche se sapeva che sarebbe stata un’ardua impresa integrarlo nella nuova squadra e nella società. D’altra parte non c’erano altri atleti disponibili in quel momento. Senza Daniel non avrebbero potuto partecipare alla competizione di Salisburgo.
“Capo, mi stai prendendo in giro?”, gli ringhiò ostile, Daniel. “Non mi dire che in giro non c’è uno straccio di riserva che possa prendere il mio posto. Quante ragazze avete come riserve nella squadra? Perché proprio io?”, gli domandò a bruciapelo, sovrastandolo di un’intera testa con la sua statura.
“Certo hai ragione, Daniel. Ma è tradizione nella nostra squadra valorizzare la parità dei sessi: la nostra è sempre stata una squadra con elementi femminili e maschili. Non intendiamo cambiare le cose ora. Come dice il detto, ‘squadra vincente non si cambia’!”, replicò con prontezza l’uomo. L’allenatore capo sapeva che Daniel, da bambino, aveva praticato per anni il pattinaggio sincronizzato su ghiaccio a livello agonistico, per assecondare un desiderio della madre. Solo più tardi aveva deciso di assecondare la sua vera passione per l’hockey su ghiaccio, mostrando di avere un talento fuori dal comune per quello sport. Talento che in breve tempo lo aveva aiutato a emergere nel mondo dell’hockey su ghiaccio.
“Non so se sarà ancora una squadra vincente con me. Per dirla tutta, Capo, non so se hai fatto un affare a prendermi…”, ribatté con cinica sincerità Daniel.
“Fammi un favore, però. Rivolgiti a me chiamandomi con il mio nome: Matteo. Se mi chiami ‘Capo’, penso che ti stai prendendo gioco di me”, lo ammonì gentile ma fermo, prendendolo alla sprovvista e rimettendolo subito nei ranghi.
Daniel annuì senza aggiungere altro e assunse un atteggiamento rispettoso nei confronti del suo nuovo allenatore.
Tutto intorno a Daniel si scatenò il brusio delle atlete della squadra, divertite dallo scambio di battute tra i due uomini. Daniel aveva osato tener testa all’allenatore con la sua ruvida schiettezza ma aveva saputo mostrare rispetto al momento giusto. Parte di quel chiacchiericcio verteva anche sull’avvenenza di Daniel che, con la sua imponente statura, i capelli castano chiari e un velo di barba, sembrava una divinità nordica.
Marta, il capitano della squadra, si fece avanti presentandosi e presentando tutte le altre atlete poi entrarono tutti in pista per l’allenamento.
Daniel, nell’entrare, diede la precedenza ad Asyia, che gli stava accanto, vicino alla balaustra. Senza darlo a vedere, ammirò la sua grazia e la sua espressione buona ma malinconica. Si ricordava di lei, quando frequentavano la scuola alberghiera a San Pellegrino ma non sapeva molto sul suo conto, se non i pettegolezzi che giravano intorno alla sua famiglia. Tutti dicevano che Asiya era una ragazza sfortunata, non voluta e mai amata dalla famiglia. Non che la cosa gl’importasse più di tanto. Aveva ricevuto anche lui la sua buona dose di egoismo e indifferenza da parte dei suoi genitori. Proprio per questo non si lasciava intenerire il cuore da storie strappalacrime.
Anche Asiya osservò di sottecchi Daniel. Il suo sguardo era spesso triste ma, quando sorrideva, il suo era un sorriso arguto e impertinente.
Una volta messo il piede in pista, Daniel si voltò verso l’allenatore e notò che stava salendo verso gli spalti, invece di entrare con loro.
“Tu non vieni?”, gli chiese sorpreso.
Matteo gli sorrise e fece cenno di no. “Io vi osserverò dagli spalti, per vedere come vi muovete. Questa sera seguirete le indicazioni di Marta e, per venirti incontro, Daniel, ripasseremo gli elementi fondamentali della nostra disciplina. Cerchi, linee, blocchi, mulini e intersezioni. Sono tutte cose che conosci ma è parecchio che non le pratichi”, spiegò l’uomo.
Daniel annuì. “E i sollevamenti?”
Matteo sorrise, affabile. “Calma, calma. Dopo tutto questo tempo che non pattini in una squadra di sincronizzato non ti faccio ricominciare con i sollevamenti. Ne riparleremo nel prossimo allenamento. Questa sera mi interessa di più vedere come ti muovi nei blocchi e come esegui le intersezioni. Preparati, Daniel, perché ti fermerò diverse volte per correggerti”.
Seguirono due intense ore di allenamento in cui l’allenatore mantenne la parola data a Daniel. L’uomo fu sollevato nel constatare che il ragazzo ricuperava velocemente sugli elementi fondamentali della disciplina. Si notava che l’aveva praticata a livello agonistico per anni. Era come se, tolta la ruggine, il suo corpo si muovesse istintivamente nel fare le cose giuste, che erano sedimentate lentamente dopo anni e anni di studio e pratica.
Durante alcune intersezioni di blocchi oppure di linee in diagonale, Daniel diede il meglio di sé.
A un certo punto Matteo chiese a Daniel di fermarsi e raggiungerlo sugli spalti. Si complimentò con lui perché era stato veramente bravo e gli chiese di osservare le altre atlete mentre avrebbero provato alcune parti della coreografia che avrebbero portato a Salisburgo.
“Dal prossimo allenamento coinvolgerò anche te nella coreografia. Come vedi le ragazze stanno provando in 15. Manca un elemento alla squadra”, gli fece notare l’allenatore. “Oggi comincia a memorizzare la coreografia, Daniel”.
Il ragazzo annuì e, più volte durante le prove, il suo sguardo cadde su Asiya. Era molto brava ed elegante nei movimenti, tuttavia Daniel continuava a percepire una lievissima incertezza in alcune parti. Soprattutto nelle prese per i sollevamenti, era come se la ragazza non si fidasse del tutto delle compagne.
Proprio mentre Daniel rifletteva su questi particolari, Asiya cadde sul ghiaccio a causa di una presa eseguita male. Sussultò, vedendo l’altezza dalla quale la ragazza cadde e trattenne il fiato, temendo che si fosse fatta male. Senza accorgersene, si era alzato dallo spalto, per vedere meglio. Quando realizzò che Asiya non si era fatta male e si era rialzata quasi subito, tornò a sedersi.
“Cosa ne pensi di quanto è appena accaduto?”, gli chiese l’allenatore a bruciapelo, continuando a guardare la squadra che aveva ripreso ad allenarsi.
Daniel rimase in silenzio per qualche frazione di secondo prima di pronunciarsi. “È stata Asiya la causa della caduta. Le compagne hanno eseguito correttamente la presa ma è come se lei non si fosse fidata di loro. Ha esitato o forse ha avuto paura e ha fatto andare tutto storto”, rispose, senza girarci troppo intorno.
Matteo annuì, voltandosi a guardarlo. “È esattamente così. Il problema di Asiya è quello della fiducia. Non è colpa sua. Ha una situazione familiare difficile alle spalle e non ha certo contribuito a darle sicurezza e autostima”
“È un vero peccato per lei, perché mi è sembrata la pattinatrice più elegante di tutta la squadra”, replicò lapidario Daniel.
Matteo annuì. “Lo è e avrebbe tutte le potenzialità per essere il capitano della squadra. È precisa, impeccabile nei movimenti, quando è concentrata e tranquilla. È una persona umanamente splendida ma ha questi momenti di défaillance in cui assume atteggiamenti rinunciatari che portano a questi risultati. È l’elemento instabile della squadra, come te”, affermò guardandolo con un’espressione provocatoria.
Daniel fece finta di niente e non raccolse la provocazione di Matteo. “Non puoi farci niente, Capo. È lei che deve lavorare per superare le sue debolezze. Se è vero che ha tutte le qualità per essere il capitano, si sta fregando con le sue mani”, replicò severo passandosi una mano nei capelli. Daniel era conscio dei propri limiti, molto simili a quelli di Asiya e aveva parlato anche a se stesso.
“Siete più simili di quello che pensate, Daniel”, replicò l’uomo.
Daniel si voltò a guardarlo meravigliato: sembrava gli avesse letto nel pensiero.
“Tutti e due non vi fidate degli altri ma con atteggiamenti diversi. Lei scappa e prende le distanze dalle persone. Tu faresti il mondo a pezzi con i tuoi accessi di collera”, continuò a spiegare l’uomo. “Dal prossimo allenamento sarai sempre nel gruppo che esegue le prese per sollevarla. Ti ho notato questa sera. Hai una presa salda e credo che riuscirai a contrastare le sue improvvise incertezze”.
“Sei sicuro della tua decisione, Capo?”, gli domandò Daniel esterrefatto, stringendo la bottiglietta dell’acqua che aveva in mano. Gli era sembrata una follia quella scelta. Due persone come lui e Asiya, che non si fidavano degli altri, non potevano proprio stare insieme. Non bastavano tutti i grattacapi che aveva. Adesso doveva anche occuparsi dei problemi di quella ragazza.
“Ti ho già chiesto di non chiamarmi Capo e, sì, non ho dubbi”.
Rimasero tutti e due in silenzio fino alla fine dell’allenamento poi scesero tutti negli spogliatoi per le docce e per cambiarsi.
Più tardi, quando Asiya entrò nel bar per mangiare qualcosa prima di tornare a casa, il locale era semi deserto. Durante la settimana i proprietari del locale chiudevano subito dopo aver servito gli atleti che si allenavano alla sera. Non essendo aperta la pista al pubblico per il pattinaggio libero, di solito c’era poca gente.
Asiya si era seduta a un tavolino e, mentre aspettava i suoi due toast al prosciutto cotto e formaggio, annotava i pensieri della giornata su un taccuino nero. Il proprietario del bar le aveva già portato un bicchiere e una bottiglia di acqua minerale.
Si riempì un bicchiere d’acqua e si accingeva a sorseggiarlo lentamente, quando vide Daniel varcare la porta del bar e dirigersi verso il bancone. Teneva con una mano le mazze da hockey e con l’altra il borsone dell’allenamento. Ora indossava un paio di jeans scoloriti, una t-shirt bianca, il cui girocollo fuoriusciva appena da quello di un maglione blu. Sopra portava un parka blu, slacciato. Il bordo di pelliccia che orlava il cappuccio era dello stesso colore castano chiaro della sua barba e dei capelli, mossi e lunghi appena oltre la linea del mento. Con quel giaccone imbottito aveva un aspetto ancora più imponente e quella tinta blu marina faceva risaltare in modo incredibile i suoi occhi azzurri.
Daniel ordinò due toast come quelli che stava aspettando Asiya. Appoggiò le mazze e il borsone a terra e fece per pagare, quando si accorse di non trovare il portafoglio.
“Maledizione!”, esclamò risentito. Lo cercò dappertutto: nelle tasche del parka, in quelle dei jeans, nel borsone ma niente. Scosse la testa costernato. “Devo averlo lasciato per sbaglio nella divisa che ho riposto nell’armadietto dell’hotel. Spero che sia così, altrimenti ho perso tutti i documenti”, spiegò “Se torno indietro adesso a vedere nell’armadietto, pensano che voglio scassinare l’hotel!”, esclamò facendo ridere il barista “Niente, sarà per un’altra volta”, disse e fece per andarsene.
In quel momento la moglie del barista portò i toast al tavolo di Asiya. La ragazza le chiese di portare i suoi due toast a Daniel e ne ordinò altri due.
Rimase a osservare la scena, quando la donna si avvicinò a Daniel, porgendogli il piatto con i toast e indicandola.
Daniel prese il piatto e si voltò verso Asiya che, imbarazzata, distolse lo sguardo, abbassandolo sul suo taccuino.
Daniel la raggiunse e si sedette al tavolino con Asiya. “Grazie”, le disse un po’ maldestro “Non me lo aspettavo. Non sono abituato a ricevere gentilezze ma non crearti aspettative su di me. Chiaro?”
“Non c’è nessun secondo fine, Daniel. Ho involontariamente assistito alla scena e mi è sembrata semplicemente una cortesia non lasciarti uscire di qui a stomaco vuoto”, rispose calma e gentile lei “Chissà perché, voi uomini pensate sempre che se una donna è gentile con voi è perché avete fatto colpo su di lei”, replicò un po’ nervosa, giocherellando con un tovagliolo di carta.
“Vorresti dire allora che non ho fatto colpo su di te e neppure sulle altre ragazze della squadra?”, rispose lui fissandola con sfrontatezza e ironica provocazione.
Per qualche istante Asiya sostenne il suo sguardo, seria, poi scoppiarono tutti e due a ridere.
“Hai uno sguardo limpido che non nasconde niente. Potresti anche negare ma non saresti credibile, Asiya”, continuò lui ma ora sorridendole affabile. “Ma sei anche una ragazza gentile e sincera. Grazie per questo gesto, l’ho apprezzato molto perché ho una fame da lupo” e addentò con voracità il suo toast.
Asiya fu contenta che Daniel avesse assunto un atteggiamento più spontaneo e gentile nei suoi confronti. Di lì a poco arrivarono anche i suoi toast. Chiuse il taccuino lasciandovi la penna in mezzo e li addentò con lo stesso appetito che aveva Daniel, solo con modi molto femminili.
Consumarono velocemente il loro pasto poi Asiya si alzò per prima dal tavolino, armeggiando con il suo borsone e la sacca dei pattini.
“Ci vediamo domani mattina, Asiya. Sarò alla pasticceria presto per ritirare le brioches e le torte per l’hotel”, le disse lui, salutandola.
Asiya gli rivolse un caldo sorriso.
Non appena fu uscita, Daniel si accorse che la ragazza aveva dimenticato il taccuino sul tavolino. Lo afferrò di slancio e la rincorse per darglielo ma oramai era andata. La rincorse fino all’uscita del palazzo del ghiaccio e la chiamò a voce alta ma Asiya non lo sentì.
Daniel si ripromise di restituirglielo la mattina seguente. Tornato a casa, non potè restitere alla tentazione di leggerlo.
“Non si fa, mio caro Daniel! Sono cose personali”, si disse da solo nel silenzio della sua camera da letto. Ma come resistere alla curiosità?
Passò tutta la notte sveglio a leggere quel diario, completamente rapito dalla lettura di quelle pagine struggenti.
“Ora capisco molte cose di te, Asiya”, mormorò tra sé e sé alle prime luci dell’alba. Si concesse un’ora di sonno, poi si alzò. Il lavoro lo aspettava.
Più tardi, quando andò in pasticceria a ritirare l’ordine dell’hotel, restituì il diario ad Asiya, spiegandole come l’avesse trovato.
Il secondo allenamento fu disastroso. Nessuna delle prese di Daniel funzionò e fu più il tempo che lui e Asiya passarono distesi sul ghiaccio che quello che riuscirono a pattinare. All’ennesima caduta Daniel decise di prendere in mano la situazione. Fermo in mezzo alla pista, sotto gli occhi di tutte le altre atlete, le parlò francamente. “Senti Asiya, io posso capire che non ci conosciamo, ma se non ti fidi di me, non ce la faremo mai a superare questo impasse. Quando ti devo sollevare o non ti abbandoni alle mie braccia o ti butti con tutto il peso. Devi prendere uno slancio moderato, non lanciarti per fare ‘la bomba’ in piscina, maledizione!”.
Asiya non credette alle sue orecchie e, indispettita dal rimprovero che aveva ricevuto, lo fulminò con lo sguardo.
“’La bomba’ in piscina? Mi hai preso per un elefante?”, replicò lei, alterata, alzando la voce.
Daniel, vedendola furibonda, preferì non replicare. Saggiamente. Tuttavia la cosa lo divertì parecchio visto che la sua statura imponente, di solito, riusciva a dissuadere chiunque dall’idea d’intraprendere discussioni con un tipo come lui.
Apparentemente Asiya non sentiva alcun timore reverenziale nei suoi confronti. Ma non si fidava.
“Nessuno mi ha mai voluta, Daniel, a cominciare dai miei genitori”, riprese a parlare Asiya ma con un tono di voce tale che solo lui potesse sentirla. “ma ora so di avere una sorella su ghiaccio e non sono più sola… Farò del mio meglio, te lo prometto. Solo non chiedermi di avere fiducia nelle persone”. Fece per voltarsi e andarsene ma si fermò e lo guardò dritto negli occhi. “E comunque anche tu non ti fidi di me”.
“Nessuno mi ha mai voluto ma ora so che qualcuno crede in me e non sono più solo… ma non chiedetemi di avere fiducia in questo maledetto mondo!”, le rispose lui con franchezza e lo stesso tono di voce di Asiya.
Rimasero tutti e due a guardarsi imbarazzati per qualche secondo e dispiaciuti per il battibecco che avevano avuto poi, incapaci di dire altro, abbandonarono la pista.
Nelle settimane seguenti Daniel si integrò bene nella squadra e imparò a gestire le insicurezze di Asiya, soprattutto nelle prese per sollevarla.
Si stava avvicinando il Natale e di lì a un mese, sarebbero stati a Salisburgo per la Mozart Cup.
Marta, il capitano della squadra insistette perché Asiya sapesse eseguire anche la sua parte, che comprendeva, nella figura finale, due ali convergenti di atlete. Asiya avrebbe dovuto prendere la rincorsa in mezzo a queste due ali e, con uno slancio, essere sollevata e terminare la performance protesa verso il cielo, come un angelo che spicca il volo.
L’allenatore era contrario alla decisione del capitano di scegliere proprio Asiya come sostituta. Era un’atleta eccezionale ma le sue insicurezze la rendevano molto instabile nelle performances.
La ragazza aveva insistito, dicendosi certa che, in caso di necessità, Asiya sarebbe stata l’unica ragazza in grado si sostituirla.
La mattina del 22 dicembre, mentre Asiya era al lavoro in pasticceria, non si sentì bene. Si era alzata di buon’ora con una forte emicrania che era andata peggiorando nel corso delle ore. Aveva sopportato a fatica le meschinità della collega che sputava maldicenze sulle persone del paese che entravano per prenotare vassoi di pasticcini da ritirare alla vigilia di Natale. Ormai la sua pazienza si stava esaurendo ed era certa di avere la febbre.
“Asiya, hai le guance rosse e gli occhi lucidi, forse è meglio che tu vada a casa, cara”, le consigliò la donna.
Asiya annuì. Mancava poco alla fine della giornata ma non resisteva più. Salutò la collega, augurandole buone feste.
La donna le raccomandò di curarsi.
Arrivata in casa, Marta, non appena la vide, capì che non stava bene.
“Ti sei presa una bella influenza, Asiya. Forse è meglio che io non parta”, le disse la ragazza che aveva già pronte le valigie accanto alla porta. Marta avrebbe trascorso qualche giorno di vacanza con il fidanzato e aveva in programma di partire quella sera stessa.
“Neanche per sogno, Marta”, le rispose Asiya, sdraiata sul divano giocherellando con il termometro. “Come hai detto, è una banale influenza di stagione. Me la caverò benissimo da sola. Non ti preoccupare e pensa a divertirti!”.
Marta le preparò qualcosa di caldo poi, un’ora dopo, il fidanzato suonò il campanello della porta. Le due ragazze si abbracciarono e Asiya augurò a Marta di divertirsi e passare un bel Natale. Poco dopo Asiya, affacciata alla finestra, li guardò uscire dall’hotel e rivolse ancora un saluto a Marta. Si rallegrò nel vederla così raggiante.
Quella notte fu molto agitata per Asiya. Fu presa da forti brividi e, nonostante la tachipirina, la febbre si alzò. Verso le sei di mattina non si sentì bene. Si alzò dal letto e andò in bagno a rigurgitare quel poco che aveva mangiato la sera precedente. Dopo aver liberato lo stomaco cominciò a tremare come una foglia e ad avere forti capogiri. Le tremavano anche le gambe e non riusciva più a reggersi in piedi. Ad un tratto vide tutto nero e capì che stava perdendo i sensi. Cercò di uscire dal bagno per andare a prendere il cellulare e chiamare aiuto ma riuscì solo ad raggiungere la porta del bagno ed aprirla. Ormai priva di forze, si accasciò a terra, con le gambe sulle piastrelle del bagno e il busto che sporgeva nella sua camera da letto. Si sentì risucchiare nel buio, sognando una barchetta che scivolava sulla superficie calma del mare. Una barchetta che avanzava inesorabilmente verso il buio.
“Asiya, svegliati!”.
Asiya riconobbe subito la voce energica e profonda di Daniel e aprì gli occhi.
“Come hai fatto a entrare?”, gli chiese mentre lui la sollevava da terra.
Daniel non rispose subito. La prese in braccio e la portò fino al letto, dove l’adagiò con delicatezza. Le sistemò due cuscini dietro la schiena poi si accovacciò sulle gambe per mettersi alla sua altezza.
“Marta mi ha dato il suo mazzo di chiavi e mi ha chiesto di passare a controllare se avevi passato bene la notte”, le disse, osservandola con un’espressione preoccupata. Subito dopo si voltò verso il comodino ma, non vedendo un telefono, estrasse il suo cellulare dalla tasca posteriore dei jeans.
“Adesso chiamo il medico”, le disse mentre attendeva di prendere la linea.
Asiya non aveva neanche le forze per parlare ed era ancora in preda ai capogiri. Si limitò ad annuire poi scivolò di nuovo in uno stato di semi incoscienza. Pochi istanti dopo sentì che Daniel le appoggiava la mano sulla fronte.
“Scotti parecchio”, le disse “ma sta tranquilla, tra poco arriverà il medico”.
Lei gli abbozzò un sorriso e riuscì a sussurrargli un “Grazie, Daniel”.
Asiya passò le successive 24 ore a combattere contro la febbre alta e principalmente dormì. Daniel, dopo che il medico l’ebbe visitata, andò velocemente a prendere un cambio d’abiti e pochi effetti personali al suo appartamento. Il dottore aveva consigliato che una persona stesse vicino alla ragazza nella fase più acuta dell’influenza. Quello che le era accaduto quella mattina era stato un abbassamento di pressione improvviso dovuto all’antipiretico assunto a stomaco vuoto. Era più prudente che non rimanesse in casa da sola.
A intervalli regolari Daniel si curò di svegliare Asiya per somministrarle la tachipirina e per farle bere del tè.
Nella prima mattina del 24 dicembre Asiya fu svegliata dalla luce del sole invernale che filtrava dalle tende di pesante tessuto scozzese alle finestre. Mentre dischiudeva lentamente le palpebre, notò qualcuno seduto alla poltrona. Era girato verso la finestra e poteva scorgere i capelli appena mossi che coprivano la nuca. Le gambe lunghe, distese e incrociate all’altezza delle caviglie, fugarono ogni suo dubbio: era Daniel.
Asiya non lo chiamò, pensando che stesse dormendo e scostò le coperte per alzarsi. Aveva bisogno di andare in bagno.
“Sono sveglio, Asiya”, disse Daniel, alzandosi prontamente dalla poltrona e andando a sedersi al margine del letto. “Ti sconsiglio di alzarti da sola: sono 24 ore che bevi solo qualche sorso di tè”.
Asiya annuì, sorridendo al suo tono di voce deciso, che non ammetteva repliche.
“Credo di non avere più la febbre ma tu cosa ci fai qui?”, chiese lei sistemandosi un cuscino dietro la schiena.
“A quanto pare tu e io siamo gli unici due a non essere andati via per le vacanze natalizie, tra i nostri conoscenti”, spiegò calmo lui “Il medico mi ha chiesto di rimanere a vegliarti finché la febbre non si fosse abbassata. Ho parlato con la tua amica Marta, prima che prendesse l’aereo e anche lei ha convenuto che era la cosa più sensata da fare. Mi ha chiesto di stare un po’ con te”.
Asiya si sporse verso Daniel e, timidamente, appoggiò la sua mano su quella del ragazzo. “Grazie, Daniel. Non deve essere stato un bello spettacolo vedermi in questo stato ma ora mi sento meglio. Penso che vorrai festeggiare il Natale con i tuoi amici… sentiti pure libero di andare quando vuoi. Credo che il peggio sia passato”.
Lui le sorrise con un guizzo sornione negli occhi e fece cenno di no. “Me ne andrò quando constaterò che riesci a reggerti sulle tue gambe senza barcollare. Mentre dormivi ho preparato qualcosa da mangiare. Adesso hai bisogno di rimetterti in forze se vuoi arrivare a gareggiare alla Mozart Cup”.
Daniel rimase a casa di Asiya fino alla sera di Santo Stefano e la ragazza fu felice di trascorrere il Natale con lui. Era il primo Natale che non trascorreva da sola da due anni a quella parte.
La ragazza rimase stupita dalla bravura di Daniel ai fornelli. I suoi consommé corroboranti erano eccezionali e in soli due giorni sentiva che stava recuperando visibilmente le forze.
“Non c’è nulla di che stupirsi, Asiya. Mio padre è uno schef stellato: ho imparato da lui”, le confidò lui, compiaciuto dall’alto gradimento che riscuotevano le sue pietanze.
La sera di Natale, mentre consumavano la cena seduti sul parquet davanti al fuoco del camino, Daniel ruppe il loro quieto silenzio.
“so che sarò indiscreto e dammi pure del ficcanaso, se vuoi… ma non ti vedi con tua madre per Natale, oppure con tuo padre?”.
Asiya, facendosi seria, scosse la testa. “Non ho un padre. L’uomo con cui mia madre ha convissuto quando sono nata non mia ha mai riconosciuto. Io sono stata un imprevisto per loro. Ora si sono rifatti tutti e due una vita e hanno le loro famiglie. Io sono la persona che ricorda loro quale terribile errore abbiano commesso a cercare di vivere insieme”, rispose con franchezza.
“Anche tua madre?”, domandò Daniel. Aveva un’espressione terribilmente dispiaciuta.
Asiya annuì “Mia madre ha impiegato anni a trovare una persona che le desse la giusta stabilità emotiva. Non ama ricordare gli errori che ha commesso in passato e la mia semplice presenta è sufficiente a farla sentire in colpa”, affermò, trovando il coraggio di dire la verità “Ormai l’ho perdonata per non avermi mai amato ma le nostre vite hanno preso direzioni diverse e non intendo tornare sui miei passi”.
Asiya, osservò il bel profilo di Daniel che, imbarazzato, aveva distolto lo sguardo, volgendolo verso le fiamme scoppiettanti nel camino. Riverberi di luce illuminavano il suo volto, rivelando bagliori di collera nel suo sguardo.
A cosa stava pensando in quel momento? Asiya si scoprì a pensare che Daniel, quando era arrabbiato era ancora più bello.
Daniel, dal canto suo, stava pensando che Asiya, quando era triste era ancora più affascinante.
Per un istante i loro sguardi s’incontrarono e tutti due lessero negli occhi in cui si stavano rispecchiando un disperato bisogno di affetto.
“Non preoccuparti, Daniel. Non sono sola, sai? Marta non è solo la mia coinquilina. Lei è la mia sorella su ghiaccio ed è come una sorella anche nella vita”.
Daniel sorrise annuendo ma non le credette. Conosceva i danni che il vuoto affettivo può fare. Li vedeva tutti i giorni negli errori che aveva commesso nella sua vita. Li vedeva nello sguardo smarrito e malinconico che spesso assumeva Asiya.
“E tu? Non torni da tuo padre per le feste natalizie?”, gli chiese lei, prendendo in mano il piattino sul quale era appoggiata la sua fetta di panettone. Ne staccò un pezzettino e lo portò alla bocca.
Daniel volle essere franco con lei, dal momento che Asiya non aveva avuto segreti con lui. “Questo è il primo Natale che trascorro fuori dalla prigione ma non voglio più avere a che fare con mio padre. Ho commesso tanti errori ma so che ora sto facendo la cosa giusta. Mio padre picchiava mia madre e la maltrattava in molti altri modi”.
Asiya lo guardò stupita.
“Mia madre ha subito la sua crudeltà mentale fino a quando, un bel giorno, ha deciso di andarsene per sempre e tornare in Scozia, da suo fratello. Non c’era posto anche per me. Mio padre mi metteva contro di lei e io non ho capito subito che mi stava manipolando solo per farle un’altra cattiveria. Ora mi sono riconciliato con lei ma è troppo tardi. Si è risposata e ha avuto un figlio che ha 10 anni meno di me”.
In quel momento Asiya comprese molte cose di Daniel e riuscì a dare una spiegazione plausibile a tutta la collera che aveva in corpo.
Istintivamente allungò la mano verso la guancia di Daniel e gli fece una carezza. Prima che lei potesse ritrarre la sua mano lui posò la sua su quella di Asiya e, avvicinandosi al suo volto, la baciò.
Asiya abbandonando ogni inibizione, gli mise le braccia al collo, rispondendo con passione a quel bacio. Non aveva più vergogna di ammettere con se stessa quanto avesse desiderato quel momento.
Subito dopo, imbarazzati, si staccarono uno dall’altra. “Scusami, è stato un attimo di debolezza e non vorrei che ti mettessi strane idee in testa ora”, le confessò lui. “non voglio approfittare della tua debolezza”.
“Sto molto meglio ora”, rispose lei ancora più imbarazzata.
“Non è a questo che mi riferisco. È il tuo disperato bisogno di affetto, Asiya”.
“È lo stesso disperato bisogno che leggo nei tuoi occhi, solo che tu non lo vuoi ammettere”, ribattè con molta franchezza Asiya.
Daniel abbandonò ogni difesa emotiva. “Sì, hai ragione ma so che sei una ragazza abbastanza intelligente da capire che non faresti un affare a metterti con uno scapestrato come me”.
Per la prima volta Asiya non trovò altre parole per replicare ma il suo istinto continuava a dirle che Daniel non era la persona senza speranze che cercava di farle credere di essere. C’era molta bontà in lui, solo che era sepolta sotto strati di collera.
Daniel staccò un pezzo di panettone dalla sua fetta e l’assaggiò. “È veramente squisito. È quello della tua pasticceria?”, chiese un po’ per cambiare argomento ma anche per soddisfare la sua curiosità.
“Sì, l’ho fatto io”, rispose Asiya, contenta del successo che stava riscuotendo la sua creazione artigianale.
“Sei un’ottima pasticcera, sai?”.
“Fare la pasticcera è il sogno della mia vita. Ho seguito anche un corso a Milano per imparare a preparare i panettoni artigianali. Ma il mio sogno è quello di andare in Austria e frequentare un corso di pasticceria austro ungarica”, gli confidò lei, continuando a mangiare la sua fetta di panettone a piccoli bocconi.
“Non ci posso credere, Asiya. Anch’io adoro fare il pasticcere, sai? Ho conseguito un attestato professionale in prigione e ho lavorato con un imprenditore che mi ha insegnato a produrre panettoni artigianali. Abbiamo anche ricevuto un premio, l’anno scorso, per il miglior panettone dell’anno”.
Asiya si mise a ridere “il mondo è piccolo, Daniel! E qual è il tuo sogno?”
“Vorrei riuscire a entrare nei Red Bull Ice Hockey. Con i soldi che guadagnerei potrei frequentare un corso di alta pasticceria in una scuola di Salisburgo che ho già individuato. Vorrei cominciare una nuova vita e aprire una piccola pasticceria lì”, le confessò.
“Allora la nostra trasferta a Salisburgo sarà un’occasione per realizzare i tuoi sogni, Daniel!”, replicò lei, non credendo alle sue orecchie.
“Fosse così semplice realizzare i nostri sogni, Asiya!”.
“Be’, mettiamola così: se le cose dovessero andarti bene, prendimi in considerazione come socia”, propose lei.
Daniel la guardò un istante negli occhi, esitando, poi le porse la mano per stringergliela. “Affare fatto, Asiya!”.
Una luce illuminò i loro occhi in quell’istante e non era il riverbero delle fiamme scoppiettanti nel camino. Era la luce della speranza.
Nei due giorni seguenti Daniel accompagnò Asiya a fare delle passeggiate nel bosco innevato. Quell’anno la neve era scesa copiosa, ammantando tutto con la sua magia e gli alberi, cristallizzati sotto il peso della neve, avevano assunto un aspetto incantato. Quelle lunghe camminate, immersi nel silenzio della pineta, muovendo i loro passi ovattati sulla neve ancora fresca, furono l’occasione per conoscersi meglio e per aiutare Asiya a recuperare gradatamente le forze, prima di riprendere gli allenamenti. La ragazza avrebbe avuto tutto il tempo per riprendersi, dal momento che avrebbe ripreso a lavorare dopo l’Epifania.
La malattia di Asiya era stata l’occasione per far cadere le barriere di diffidenza che c’erano tra lei e Daniel.
Quando ripresero gli allenamenti, il 28 di dicembre, l’allenatore rimase esterrefatto nel constatare quanta sintonia vi fosse tra Asiya e Daniel. L’atteggiamento più fiducioso che i ragazzi mostravano l’uno verso l’altra ma anche nei confronti delle altre atlete, si riverberò immediatamente sulla qualità delle performance della squadra.
Un giorno Daniel rivelò ad Asiya di voler entrare in contatto con i Red Bull Ice Hockey, una volta arrivati a Salisburgo. Avrebbe chiesto di poter sostenere una prova per entrare nella loro squadra e avrebbe fatto di tutto per poter tornare ad occuparsi di hockey su ghiaccio.
Asiya fu contenta per lui ma, al tempo stesso, provò un senso di malinconia. Se Daniel fosse stato preso dai Red Bull e se la scuola di pasticceria austriaca avesse ammesso solo uno di loro due al corso di diploma, lei avrebbe dovuto far ritorno in Italia. Il solo pensiero che le loro strade avrebbero potuto dividersi la rattristò profondamente.
La mattina del 5 gennaio Asiya si svegliò molto presto con una gran voglia di fare. Ormai era guarita completamente dall’influenza e non vedeva l’ora che tornasse Marta per raccontarle quanti progressi avevano fatto lei e Daniel sia nella loro amicizia che nel loro affiatamento con il resto della squadra. Durante l’assenza dell’amica, Asiya aveva assunto il ruolo di capitano sostituto. Ruolo che stava dimostrando di saper ricoprire molto bene. La prima ad esserne stupita era stata proprio lei, Asiya. Marta, a onor del vero, si era detta sempre certa che solo Asiya, la sua sorella su ghiaccio, sarebbe stata in grado di sostituirla a dovere.
Si incontrò con Daniel nel bosco per un allenamento di nordic walking. Era stato lui a insistere per questi allenamenti e aveva avuto ragione, perché l’avevano aiutata a recuperare velocemente le forze.
Mentre camminavano di lena, affondavano ritmicamente le punte dei loro bastoncini da camminata nella neve. Asiya faticava un po’ a stare al passo di Daniel. Non era alta come lui e non avrebbe mai potuto eguagliare le incredibili falcate delle sue lunghe gambe. A un certo punto rallentò perché cominciava ad avere il fiato in gola.
Daniel se ne accorse e non la incitò a resistere alla fatica, dal momento che era ancora convalescente. Proprio nel momento in cui rallentò il passo per procedere al fianco di Asiya, il cellulare della ragazza squillò.
Daniel la osservò rispondere e rimanere in ascolto per qualche secondo. Subito dopo la vide impallidire e barcollare. Le si avvicinò e la sostenne prendendola a braccetto.
“Cosa succede, Asiya? Chi era?”, le chiese.
“Era l’allenatore. L’aereo di Marta…”, rispose lei con gli occhi pieni di lacrime “… è precipitato stanotte mentre sorvolava la Russia. Non si è salvato nessuno”, disse, lasciando cadere il cellulare a terra.
Daniel la sostenne, vedendo che le cedevano le gambe.
“Ci deve essere un errore. Come fa a saperlo Matteo?”.
“Hanno chiamato dal Consolato. Dicono di aver trovato tra i resti dell’aereo la tessera della nostra squadra e sono risaliti al nome di Matteo. I genitori di Marta ora sono in viaggio per San Pietroburgo per il riconoscimento del corpo”.
Asiya non fu capace di dire altro e, tra le braccia di Daniel, proruppe in un pianto disperato.
Dopo lo shock iniziale per la tragica morte di Marta, la squadra riprese gli allenamenti per la Mozart Cup. Nonostante tutte le atlete stessero portando sulla propria pelle i segni del trauma causato dalla perdita improvvisa del loro capitano, decisero di partecipare comunque alla competizione di Salisburgo. Volevano vincere per onorare la sua memoria o, quantomeno, fare del loro meglio.
L’allenatore capo, per onorare la volontà di Marta, nominò Asiya capitano. Sarebbe stata lei a eseguire anche la parte della sua sorella su ghiaccio, spiccando il volo dell’angelo nella figura finale della loro coreografia.
La verità era che tutti si stavano chiedendo se Asiya sarebbe riuscita a eseguire la sua parte o se avrebbe mandato a rotoli l’intera performance. Tutti temevano la cosa più grave: che Asiya, all’ultimo, avrebbe deciso di non eseguire affatto la sua performance.
Daniel la difese senza remore, dicendosi convinto che Asiya avrebbe onorato l’impegno preso. Parlò anche francamente con lei, una sera, mentre cenavano a casa sua.
Asiya, presto, avrebbe dovuto anche lasciare l’appartamento che condivideva con Marta perché con il suo stipendio non sarebbe riuscita a pagare da sola l’affitto.
“Sono sicuro che non rinuncerai a partecipare alla gara e alla prova di ammissione alla scuola di pasticceria. Sosterremo tutte e due le prove insieme e realizzeremo il nostro sogno, Asiya. Tu mi hai insegnato a fidarmi degli altri e te ne sarò per sempre grato”.
In un impeto di affetto, la baciò, rivelandole di amarla.
“Ti amo anch’io, Daniel. Tu sei il primo ragazzo di cui io mi sia veramente fidata e ho capito che eri una brava persona sin dalla prima volta che ti ho visto”, ammise lei, abbracciandolo forte.
Quella sera Daniel le propose di andare ad abitare da lui, così non avrebbe più avuto il problema di far fronte all’affitto.
Asiya, sicura dei sentimenti che provava per Daniel, accettò.
Arrivò il giorno della trasferta a Salisburgo, a metà gennaio. Appena arrivata, la squadra si recò all’Eisarena Salzburg, sede dell’ Eishockeyclub Red Bull Salzburg, che ospitava ormai da anni la Mozart Cup, una delle competizioni di pattinaggio sincronizzato più prestigiose a livello internazionale.
Quel pomeriggio era stata loro riservata la pista per un ultimo allenamento prima dell’inizio della competizione, il giorno seguente.
Asiya si comportò con sicurezza nel ruolo di capitano e, durante tutto l’allenamento, percepì la presenza di Marta, la sua sorella su ghiaccio. In ogni passo che eseguiva, in ogni indicazione che dava alla squadra ricordava le parole di Marta. La sua presenza era così forte, che Asiya ebbe l’impressione di avere realmente l’amica accanto, pronta ad approvare o correggere le sue decisioni come nuovo capitano. Nonostante il recente dolore per la tragica perdita dell’amica, Asiya s’impose di non cedere allo sconforto. Lei, come tutta la squadra, voleva vincere la Mozart Cup per Marta.
Il giorno seguente, a metà pomeriggio, lo speaker della competizione chiamò in pista “Ice Force One”, per il programma lungo.
Tutte le atlete e Daniel presero posizione al centro della pista. Asiya lasciò scorrere lo sguardo sulla figura di Daniel, vestito da angelo. Così alto, con i capelli castano chiari, quasi biondi e il suo completo azzurro, era incredibilmente affascinante.
Daniel non aveva voluto tagliare la barba per interpretare quella parte così, in quel momento, rimandava al pubblico l’immagine di un angelo spiccatamente virile. La presenza dell’elemento maschile in una squadra di pattinaggio sincronizzato attira già di per sé l’attenzione del pubblico. Per gli atleti questo è motivo di preoccupazione perché, avendo tutti gli occhi puntati addosso, il maschio deve essere perfetto nell’esecuzione.
Asiya non aveva alcun dubbio che Daniel sarebbe stato perfetto. I dubbi erano su se stessa: sarebbe riuscita a portare a termine la performance tenendo a bada la sua maledetta emotività?
In quel momento Daniel prese posizione accanto a lei, lasciando scorrere uno sguardo di ammirazione sulla sua elegante figura. Asiya era inguainata in un magnifico abito da angelo, azzurro, incrostato da paillette di cristallo in colori cangianti che digradavano in diverse sfumature dall’azzurro fino al bianco ghiaccio. Alcuni di quei cristalli adornavano i capelli scuri della ragazza, acconciati in un elegante chignon, mettendo in risalto i suoi occhi blu.
“Sei un angelo incantevole”, le sussurrò “… ma sei talmente affascinante che ti vedrei benissimo sfilare tra gli angeli di Victoria’s Secret!”, le confidò con uno sguardo audace e impertinente.
Daniel, con la sua maliziosa audacia, riuscì nell’intento di far ridere Asiya e smorzare la tensione che aveva addosso.
Lei, con un sorriso dolcissimo sulle labbra, gli fece una timida e fugace carezza sulla guancia, che gli allargò il cuore.
Tutta la squadra, pronta nella posizione iniziale della coreografia, si raccolse in un concentrato silenzio, pronta a iniziare la performance.
Le prime note della loro musica fluirono nello stadio, colmando l’atmosfera con impalpabile delicatezza. Gli atleti iniziarono a muoversi con la stessa delicata ed elegante armonia di quella dolce melodia.
Procedette tutto bene fino alla fine, quando arrivò il momento della figura finale. Tutte le atlete erano già disposte in due ali convergenti, al centro delle quali c’era Daniel, pronto a sollevarla per il salto finale dell’angelo. Tutto quello che Asiya doveva fare era prendere una rincorsa, pattinando verso Daniel ma era bloccata dalla paura di non essere all’altezza della bravura di Marta in quella figura.
Fu in quel momento che Asiya vide come in sogno la sua sorella su ghiaccio.
“Prendimi per mano, Asiya”, le disse Marta, prendendola per mano. “Pattineremo insieme fino a raggiungere Daniel e sarà il suo amore a farti volare come un angelo. Fidati di lui e di te stessa”.
Daniel, vedendo che Asiya era bloccata, fece un fuori programma. Le andò incontro e si fermò davanti a lei. “Non avere paura, Asiya, andrà tutto bene. Sono con te”, le disse. Daniel iniziò a pattinare all’indietro, con davanti Asiya, che cominciò a pattinare, seguendolo.
Solo lei poteva vedere la sorella su ghiaccio che la teneva per mano e pattinava con lei.
Quando Asiya arrivò al punto di convergenza delle due ali di angeli, Daniel si fermò, pronto a prenderla e sollevarla.
“Sei pronta, Asiya?” le domandò Marta.
Asiya annuì con la testa.
“Adesso, Asiya: salta!”, la spronò Marta.
Asiya, insieme alla sorella, prese lo slancio e saltò, assumendo la posizione di un angelo che spicca il volo.
Ci fu qualche istante sospeso nel silenzio, poi il pubblico si alzò in piedi e applaudì con un’ovazione la loro performance perfetta.
Tutti avevano compreso che Ice Force One aveva vinto la Mozart Cup. Mentre Daniel riadagiava a terra Asiya, lei vide oltre le spalle del ragazzo la sua sorella su ghiaccio sorriderle, felice e commossa e poi svanire nella nebbia del ghiaccio, così come le era apparsa in sogno.
“A chi annuivi prima di raggiungermi?” le chiede Daniel, poco dopo, prima di salire sul podio dei vincitori.
“Questa sera ho pattinato con un angelo: era la mia sorella su ghiaccio”, rispose Asiya mentre riceveva la coppa dei primi classificati alla Mozart Cup.
Lui rimane sconcertato ma non replicò, sapendo quanto Asiya fosse stata legata alla sua sorella su ghiaccio.
“Alla memoria di Marta: questa vittoria è per te, sorella mia”, mormorò Asiya, sollevando la coppa.
Sotto l’applauso scrosciante del pubblico, Asiya si lasciò andare a un pianto liberatorio. Subito dopo passò la coppa all’allenatore e alle altre atlete e si voltò verso Daniel. Prendendolo di sorpresa, gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò forte. “Grazie per quello che hai fatto poco fa, Daniel. Ti amo”.
Daniel, totalmente incurante del fatto che avevano puntati addosso gli occhi dell’intero palazzo del ghiaccio e gli obiettivi dei fotografi che avevano il compito di documentare la competizione, la baciò appassionatamente.
Finite le foto istituzionali con tutte le squadre in pista, Asiya e Daniel diressero verso l’uscita. Arrivata all’altezza della balaustra, Asiya fu colta dalla sorpresa nel vedere sua madre.
Si voltò verso Daniel, che stava alle sue spalle, guardandolo con espressione interrogativa.
Lui annuì: “Sì, sono stato io a contattarla, con l’aiuto del Coach, che mi ha dato il suo numero di cellulare”.
Fu un momento molto commovente. La madre di Asiya l’abbracciò.
“Ho sempre saputo che eri una ragazza piena di talento e bontà.”, le disse.
La donna era stata avvertita della tragica perdita di Marta e, sapendo quanto fosse stata importante l’amicizia di quella ragazza per sua figlia, non aveva esitato a raggiungerla a Salisburgo, per esserle accanto in un momento così delicato.
“Non mi sono mai meritata una figlia come te, Asiya. Perdonami per tutta la sofferenza che ti ho causato, se puoi”.
“Ti prego, mamma, non dire così”, rispose la ragazza, commossa.
In quel momento furono interrotti da una voce familiare.
“Complimenti giovanotto, un ottima performance!”.
Daniel, che fino a quel momento era stato accanto ad Asiya, si voltò di scatto e riconobbe l’allenatore degli Ice Force One Ice hockey. L’uomo gli comunicò che la sua sospensione per motivi disciplinari era revocata e che avrebbe potuto rientrare nella squadra. Contemporaneamente gli presentò l’uomo che gli stava accanto: era l’allenatore capo dei Red Bull Ice Hockey. Daniel era stato notato già da tempo dai vertici della squadra salisburghese. Cogliendo l’occasione della sua presenza all’Eisarena Salzburg, lo invitarono a giocare una partita amichevole di allenamento con loro, il pomeriggio seguente.
Il giorno successivo Asiya sedette sugli spalti del palazzo del ghiaccio a godersi l’incredibile talento di Daniel, all’opera con gli atleti della squadra salisburghese. Al termine dell’allenamento gli venne offerto un posto nella squadra, con un contratto di un anno.
Daniel prima di accettare, si voltò verso Asiya. “Non voglio perderti, Asiya. Tu sei più importante di tutto questo”.
“È quello che hai sempre sognato, Daniel. Sono contenta per te… ma sappi che non ti libererai di me così facilmente!”.
Daniel la guardò perplesso.
Asiya gli presentò la ragazza che sedeva accanto a lei. Era il capitano delle “Sweet Amadeus”, la squadra Salisburghese di pattinaggio sincronizzato. Erano alla ricerca da tempo un nuovo allenatore capo che seguisse tutte le categorie della squadra: juvenile, cadette e senior. La bravura e la superiorità tecnica di Ice Force One era riconosciuta a livello europeo. Un allenatore come Asiya avrebbe fatto salire di livello la loro squadra.
Asiya aveva deciso di accettare la proposta per prendere le distanze dal dolore causato dalla perdita di Marta. La distanza dai luoghi dove si era allenata per anni con la sua sorella su ghiaccio l’avrebbe aiutata ad affrontare il periodo di lutto.
Daniel fu felicissimo di apprendere quella notizia. “Ora dobbiamo solo superare la prova di ammissione alla scuola di pasticceria austriaca, Asiya, e poi potremo costruirci un nuovo inizio insieme, qui”, le disse lui, fiducioso.
Qualche giorno dopo aver affrontato l’esame alla scuola di pasticceria, Asiya e Daniel appresero di essere stati ammessi al corso che avrebbe avuto inizio a febbraio.
Per ritemprarsi dalle fatiche sportive e professionali che avevano affrontato e prima di iniziare le nuove sfide che li attendevano, i ragazzi si concessero una breve vacanza.
Appoggiati al parapetto sul ponte del traghetto, Asiya e Daniel riconobbero l’inconfondibile profilo di Tobermory, un piccolo villaggio gaelico sull’isola di Mull, nella Scozia nord occidentale.
Un fila di coloratissime casette, gialle, azzurre, rosse e blu, si estendeva davanti ai loro occhi. Attraccati al molo c’erano anche dei pescherecci, il cui aspetto vissuto testimoniava quante volte dovessero aver solcato le onde di quelle acque gelide nell’Oceano Atlantico.
“È quella la casa di tua madre?”, chiese Asiya, indicando una casa color rosso fiammante, con le finestre a piccoli vetri, all’inglese, tutte bordate da un profilo bianco.
Daniel annuì, un po’ nervoso. L’idea di incontrare sua madre dopo tutti quegli anni lo faceva stare in ansia.
“Che belle che sono. Mi ricordano le casette colorate norvegesi di Bergen, che ho visto al computer”, osservò Asiya, estasiata da quell’incantevole visione.
“Sì, solo che quelle casette sono in legno. Queste sono fatte di mattoni dipinti poi con questi allegri colori”, puntualizzò Daniel, con una punta di ansia nella voce.
Era stata Asiya a riprendere contatti con la madre di Daniel, scrivendole una lettera e spiegandole che il ragazzo continuava a sentirsi in colpa per aver creduto alle menzogne che il padre gli aveva raccontato sul suo conto. Daniel aveva sofferto per anni per l’allontanamento della madre.
Era giunto il momento dei chiarimenti, prima di iniziare la loro vita insieme.
Scesi dal molo Daniele e Asiya trovarono ad attenderli una donna con un bambino sui 10 anni. Era il fratellastro di Daniel e la somiglianza tra i due ragazzi era tale che Asiya, osservando il bambino, poté avere un’idea che come dovesse essere stato Daniel, 10 anni prima.
Fu un incontro commovente. Daniel e sua madre si abbracciarono e il ragazzo cercò con tutte le sue forze di trattenere le lacrime che sua madre, al contrario, non si vergognò di mostrare.
“Perdonami, se puoi”, le disse Daniel “papà mi ha sempre detto che non mi volevi nella tua vita e che ci avevi abbandonato perché non ti era mai importato nulla di noi. Perdonami per non aver avuto la forza di difenderti da tutto il male che ti ha fatto papà”.
La donna scosse la testa. “Eri solo un ragazzino e non hai nessuna colpa, Daniel. Non ho mai voluto abbandonarti. Quando ho lasciato tuo padre avevo già trovato una persona che mi amava veramente. Tuo padre mi ricattava, dicendo che, se ti avessi portato con me, avrebbe intrapreso una battaglia legale senza precedenti. Non volevo che tu diventassi un oggetto di contesa. Ho rinunciato a te solo per non vederti soffrire ancora di più. Sono io a chiederti di perdonarmi, Daniel”.
Quella sera Daniel portò Asiya su una barchetta di pescatori locali, per una piccola crociera notturna nell’arcipelago delle Ebridi Interne.
Distesi sul legno del ponte e avvolti in pesanti coperte scozzesi, Asiya e Daniel giacevano abbracciati l’uno all’altra, con lo sguardo rivolto verso la volta celeste.
Asiya chiuse gli occhi, ricordando la barchetta che stava sul comò della casa di sua nonna, quando era bambina.
Una barchetta avanzava inesorabilmente verso il buio, nel silenzio della notte… Asiya aprì gli occhi, interrompendo il sogno. No, la barchetta non stava avanzando verso il buio e lei non era più sola. Con lei ora c’era Daniel che l’abbracciava e sopra la sua testa la volta celeste era illuminata dalle luci palpitanti della Via Lattea. E una stella, più di tutte le altre, brillava nel cielo terso, illuminandolo: la stella di Marta, la sua sorella su ghiaccio.
ICE FORCE ONE – LA SORELLA SU GHIACCIO
FINE
“Ice Force One – La sorella su ghiaccio”, copyright © 2018-2019 Simona Maria Corvese.