Tante storie magiche
IL KIMONO – IL FESTIVAL DELL’ORIENTE
Buongiorno,
allego altro racconto.
Cordialmente
Marina Zinzani
IL KIMONO – IL FESTIVAL DELL’ORIENTE
di Marina Zinzani
“Parlare dell’Oriente è come parlare di un viaggio. Qualcosa di spirituale, di diverso da ciò che pensiamo, crediamo. Un tuffo in culture antiche, che conoscevano strane unioni fra la terra e il cielo, che vedevano in una cerimonia, come quella del tè, un atto pieno di simboli, che riconciliava la nostra parte più profonda, che dava armonia e pace.”
Micol guardava incantata la donna che sul palco parlava, con un libro in mano. Era seduta e ascoltava quelle parole che sentiva così vere. Era un momento bello, quello. Essere al Festival dell’Oriente vicino a Milano, essere lì e vedere cose mai viste prima. Sentire anche discorsi inconsueti, perché era pieno di incontri, di piccole conferenze, quel Festival.
Erano finiti lì non sapevano come, sbagliando strada. Bastava una strada chiusa, e il ritorno a casa aveva riservato quella sorpresa. Micol, suo marito Marco, e i loro due amici Claudio e Vittoria. Una gita a Milano per qualche giorno, e una strada sbagliata. Perché dunque non approfittarne, e visitare quel Festival dell’Oriente che era pubblicizzato ovunque con enormi poster?
La fibrillazione di Micol, una volta dentro, era alle stelle. Quante cose, non aveva mai visto niente di simile! Stand, artigianato di tanti Paesi, nomi che le passavano davanti agli occhi, Tibet, Nepal, India, Cina, Giappone, abiti, borse, bancarelle piene di collane, orecchini, anelli con strani simboli, con colori incredibili! Troppo bello, e così grande, perché apparve subito chiaro che i padiglioni offrivano tanto. Tanto. E lei non voleva perdersi nulla.
Il suono di un tamburo. La tenda mongola, yurta si chiamava. Si intravedeva gente distesa dentro. Qualcuno suonava in piedi un tamburo, lì dentro. Forte, sempre più forte. Forte con un ritmo che sembrava il cuore che scoppiava. Gli sciamani.
Micol guardava incantata quello che traspariva dalla tenda, dalla porta piena di fili di stoffa.
“E’ una tecnica degli sciamani, suonare il tamburo” disse al marito. Aveva letto qualcosa di simile, e vederlo rappresentato lì le sembrò davvero una strana cosa.
“Dobbiamo allontanarci, questo tamburo ci rompe i timpani!” disse Claudio.
Claudio era l’amico di sempre di suo marito. Alto, enorme quasi, sempre di fretta, con un forte stato d’ansia in ogni cosa che faceva. Andare via con lui significava correre, sempre, per ogni cosa. Quasi come se il tempo libero non fosse diverso dal lavoro. E sua moglie Vittoria era l’opposto: tranquilla, di una tranquillità che non lasciava però trasparire grandi emozioni.
Suo marito Marco era affezionato a Claudio, e quindi ci usciva, una volta ogni tanto. Conosceva le passioni della moglie, aveva visto per casa dei libri un po’ strani, cose che parlavano di campane tibetane, anche. Quelle che lei vedeva esposte in più bancarelle, quelle che qualcuno, forse del Tibet, chissà, mostrava a qualche persona interessata.
Era entusiasta, Micol, apparivano mille cose ai suoi occhi: il suono del tamburo si stava allontanando, appariva allora una piramide, grande, dove le persone potevano sedersi, il potere della piramide, aveva letto qualcosa, e poi vide delle persone sdraiate e delle massaggiatrici che avevano messo delle pietre nere lungo le loro schiene…
Il fascino dell’Oriente la prese, non aveva mai visto niente di simile, tante bancarelle anche con i cristalli, pietre che curavano, interessante il fatto che tutti i popoli antichi davano così importanza alle pietre…
Ma mentre lei si stava perdendo, ogni cosa era un punto su cui soffermarsi, su cui approfondire, i tre che erano con lei mostravano una certa insofferenza.
“Non possiamo fermarci in tutte le bancarelle, Micol. Tante cose le trovi anche nei mercati, questi ti vogliono vendere di tutto… Quello di prima ti voleva far comprare la crema all’aloe, l’altro l’olio di argan, se dai retta a tutti non ci muoviamo più…” disse il marito.
E intanto Claudio, dietro di lei, toccando l’orologio, fece segno che era ora di mangiare.
Ma Micol ebbe un moto d’orgoglio! No! Quelle cose a lei interessavano! E quando mai avrebbe visto qualcosa di simile, tutte quelle cose insieme, poi! Senza contare le belle parole che quella donna, certamente una scrittrice, aveva detto sul palco, chissà se c’era ancora…
“Sentite, perché non ci vediamo fra mezz’ora… Io mi faccio un giro da sola, così voi andate a vedere dove si può mangiare… “
“Guarda Marco che bisogna muoversi, non vedi tutta questa gente, fra poco non ci sarà più posto per mangiare, dobbiamo scegliere, c’è quel ristorante indonesiano, anche quello tibetano, cosa dici… si fanno le file, dopo, se aspettiamo…”
“Va bene, va bene – disse Micol con un certo puntiglio – voi andate a vedere, ci vediamo fra mezz’ora qui, magari prendete posto, a me va bene tutto, comunque tengo il cellulare acceso…”
“Tu Vittoria vuoi stare con lei? Vi veniamo a prendere dopo…” chiese Claudio.
“No, vengo con voi, andiamo a vedere cosa si mangia…”
Finalmente. Finalmente li aveva seminati. Sentirsi in colpa per fermarsi ad un banco che vendeva oli essenziali, o lampade di sale, questo no. Sentire lo sguardo, quasi il fiato di Claudio addosso, andare di pari passo con l’insofferenza verso di lei, che si fermava troppo, troppo a lungo negli stand: lo capiva dal suo sguardo cosa pensava…
“Cosa ne dici…” aveva chiesto suo marito, poco dopo che erano entrati.
“Una paccottiglia di roba, per gente un po’ fuori di testa…” aveva risposto Claudio.
Questo aveva sentito Micol, e non l’aveva sorpresa la grossolanità dell’amico. Che poi era amico di suo marito. Con lei il tono era stato spesso sarcastico, le sue passioni viste come sintomo di chissà quale instabilità mentale.
La donna sul palco non c’era più. In compenso c’era un’altra cosa. Strana, davvero strana. Una giapponese stava vestendo una ragazzina, forse italiana, con un kimono. C’era un sottofondo di musica molto gradevole, certamente orientale, una specie di suono armonioso che accompagnava la vestizione. Incredibile. Micol si sedette, c’erano altre persone che assistevano a quel piccolo spettacolo. Una fascia che girava, che doveva passare da sotto, da sopra, il kimono dai colori bianchi e verdi prendeva forma, ma lunga, lunghissima sembrava la vestizione della giovane, e la giapponese, vestita anch’essa con un kimono aveva la grazia nelle mani. Ogni gesto misurato. Come un rito.
Micol guardava rapita. Sì, le piaceva il Giappone. Aveva letto un libro sulla cerimonia del tè. Più di un rito. Un modo di avvicinarsi ad una spiritualità, una rarefazione che coglieva il cuore, che parlava un linguaggio antico, suadente, misterioso… E ora quella vestizione del kimono appariva qualcosa di simile, altro rito, altro linguaggio, come quello degli origami, quello delle ikebana, quello dei dipinti stilizzati dove la semplicità sembrava la cosa più difficile da raggiungere…
E ora quella giapponese che vestiva la giovane appariva, nei suoi ritmi lenti, precisi, parte di un rituale che era calma, quiete, antico e presente, quell’antico a cui tanti si aggrappavano per cercare, cercare di vivere un po’ meglio in Occidente…
“Oh, ti stavamo aspettando! Dove ti eri messa!”
La voce grossa di Claudio la risvegliò da quel candore, da quel mondo incantato in cui era scesa, ascoltando la musica orientale, e seguendo le mani piene di grazia della giapponese…
Lo seguì, avevano scelto lo stand con meno persone, quello thailandese.
“L’ho detto io che dovevamo muoverci prima. Si è fatta fila dappertutto, improvvisamente. Dovevamo scegliere prima, quel ristorante indonesiano è strapieno, si vede che lì si mangia bene, e invece abbiamo perso tempo e dobbiamo mangiare qui, non c’è tanta gente, non so se sarà granché” disse Claudio con tono scontroso. Era chiaro che incolpava lei per “avere perso tempo”.
Suo marito non diceva niente, non chiese neanche se aveva visto qualcosa di interessante. Ormai l’argomento dei tre era il cibo, lo era da quando erano entrati, forse.
Al banco, dove piatti thailandesi erano esposti, parlavano di cosa fosse meglio scegliere. Qualcosa che ricordava la cucina cinese. Spaghetti di soia con verdure, involtino primavera, salsa rossa agrodolce.
“E’ come la cucina cinese, dobbiamo accontentarci di questo, l’unico posto che ha ancora dei tavoli liberi” disse seccato Claudio.
“Forse è un po’ diversa…” commentò Marco.
“No, è uguale. Te lo assicuro.”
Claudio era sempre sicuro di sé e vagamente insopportabile. Perché quello che ognuno si trovò nel suo piatto aveva un sapore unico, buono, buono come le immagini della giapponese, come l’eleganza del kimono, come la grazia di quell’abito, come la lentezza che richiamava quiete, rugiada, uccellini, acqua.
Non ascoltò più i tre, Micol. Non c’erano riusciti a farla sentire in colpa, a farla sentire strana. Lo amava il Giappone. E la pioggia che iniziava a cadere, che cadeva sulla tettoia di quello stand all’aperto, la accompagnò per tutto il pranzo, pioggia, ticchettio delicato come mani che facevano girare la ragazza, mani che avvolgevano il corpo con le fasce, che davano forma, che ingentilivano il cuore.