Tante storie magiche
RISOTTO ALLO ZAFFERANO
Buongiorno,
invio altro racconto, fu premiato ad un concorso dalla Sig.ra Sveva.
Cordialmente
Marina Zinzani
RISOTTO ALLO ZAFFERANO
di Marina Zinzani
Il mare era un ricordo. Un viaggio, tanti anni prima. Il colore blu dell’acqua, un palazzo lambito dalle onde. Le spezie e i mercati, profumi che uscivano da stradine dove la vita si esprimeva in modo pungente e saliva su per le narici, e si mischiavano gli odori del cibo ai piaceri del palato e tutto aveva i colori dell’oro al tramonto, il tramonto sul mare, e dell’acqua che diventava quasi nera, oro e nero, oro e nero.
Era lontano l’Egitto. Milano era una città grigia, con la nebbia e i palazzi pieni di graffiti. Non c’era il mare, non c’era nessun tramonto con i colori magici che si stagliavano sull’acqua. Non c’era nulla, a Milano. C’era solo un po’ di lavoro, e basta.
Abdul si divideva tra la trattoria dove faceva il cameriere, e la sua stanza a due letti, in comune con un amico marocchino. Era già qualcosa, avere trovato un lavoro. Solo che la trattoria aveva sempre meno clienti, e Gustavo, il titolare, faceva quello che poteva, era sempre dietro alla cassa a fare dei conti, chissà come sarebbe stato il futuro del locale, con quei pochi clienti al giorno. E lui, Abdul, non sapeva cosa ci fosse per lui, da lì a pochi mesi. Le cose si evolvevano, e sembrava sempre peggio, con la crisi che c’era.
Aveva venticinque anni, Abdul, e tanta voglia di rivedere il mare. Il ricordo di quel viaggio fino ad Alessandria se lo portava dentro, era stato un viaggio con alcuni parenti, suo padre stava ancora bene, era stata una bella giornata. Poi, un giorno, tutto era cambiato, il padre era morto, e allora lui aveva dovuto rimboccarsi le maniche, per mantenere la madre e due sorelle più piccole. Aveva dovuto partire.
Non era bella Milano, quella di chi era povero. Un palazzone grigio, scrostato: questa era diventata la sua casa. E la sua vita era diventata quel via vai in cucina, fra i fumi delle pentole, odori pesanti, volti sudati, nessun sorriso.
“C’è un problema, Abdul, un grosso problema.”
Gustavo era lì, in cucina, solo. L’aria grave, il corpo appesantito, la barba che non si era fatto, l’impressione che non sapesse da che parte cominciare: girava lì, tra le pentole, scuoteva la testa.
“Salvatore se n’è andato. Così, di punto in bianco. E adesso noi cosa facciamo? Tra un’ora apriamo, non so cosa fare, non so proprio cosa fare.”
L’uomo aveva un tono sconsolato, Salvatore era il cuoco napoletano che ultimamente aveva avuto continui battibecchi con Gustavo. Chissà cosa era successo, per andarsene da un momento all’altro. Senza preavviso, con la gente che stava per arrivare e nessuno in cucina.
“Posso provare io, ma non so da che parte cominciare…” disse Gustavo.
Le sue parole avevano una nota sommessa, se non fosse stato un uomo di sessant’anni sarebbe stata la voce di un bambino che stava per piangere.
Abdul lo guardò, e provò pena per quell’uomo che non se la doveva passare bene. Si sapeva poco di lui, se non che si era separato mesi prima, e doveva dare un sacco di soldi alla moglie.
“Se vuole… posso provare io… avevo lavorato in cucina, tempo fa…” abbozzò Abdul.
Gustavo lo guardò, pieno di interrogativi. Pensò, si vedeva dalla fronte corrucciata, si passava la mano sui capelli e lo squadrava, come per cercare la conferma che quel cameriere egiziano fosse in grado di arrivare alla fine della giornata senza fare disastri.
“Provaci, Abdul, fai quello che puoi. Altrimenti devo chiudere, oggi, vediamo di arrangiarci.”
C’era il sole, a Milano. Aveva due grandi occhi neri, la pelle ambrata, lunghi capelli che scendevano formando dei boccoli. Jamila. L’aveva incontrata lì, in quella città. Anche lei a Milano, a lavorare. Era bellissima.
C’era il sole, quel giorno in cui l’aveva conosciuta. Non aveva visto la leggera foschia, non aveva sentito l’umido nelle ossa, non aveva avvertito l’aria inquinata dalle troppe macchine. C’era il sole davanti a lui, e il sole era lei. Lei che aveva trascorso quel giorno con lui, i capelli setosi, le labbra rosee, la pelle di seta. Il tramonto e i colori dell’oro e del nero sull’acqua. Sì, la donna più bella che avesse mai visto.
L’oro, il giallo, lo zafferano. L’oro e il nero, il tramonto, gli occhi neri di Jamila, il sole, il giallo, la polvere di zafferano e poi, poi… sì, ricordava cosa metteva il suo amico cuoco, quello che aveva lasciato in Egitto, nel suo piccolo paese, gliel’aveva detto cosa rendeva quel piatto così straordinario, quell’ingrediente, quello misterioso, quello che nessuno immaginava…
C’era in cucina, quella sostanza che gli aveva indicato l’amico. Doveva preparare il risotto che era in menù, doveva provare a metterci quella cosa…
Erano passate tre ore, e lui e Gustavo erano sopravvissuti. Il titolare, con il suo corpo sgraziato, il respiro un po’ affannato, aveva fatto il cameriere, e Abdul, beh, lui se l’era cavata incredibilmente bene. Era riuscito a tenere tutto sotto controllo, d’accordo che erano stati pochi i clienti, ma ce l’aveva fatta.
“Buonissimo il risotto, complimenti al cuoco” disse una signora alla cassa, mentre stava pagando.
Gustavo annuì, perplesso.
“Sì, veramente buono” commentò anche l’amica.
“Siete aperti anche domani, vero?” chiese un altro avventore.
Gustavo abbozzò un sorriso. Nessuno aveva mai fatto complimenti al cuoco, o aveva dimostrato di apprezzare la cucina del locale. Forse i sapori erano un po’ scialbi, forse Salvatore aveva fatto credere che lui portava i profumi del Sud, ma la sua cucina era informe, confusa…
Li aveva sentiti, i commenti. Siete aperti anche domani, vero? Magari quel signore che l’aveva chiesto sarebbe tornato, magari avrebbe portato altre persone… Il risotto allo zafferano…
“Abdul, non ci stiamo dietro, oggi. Sembra che improvvisamente tutti vogliono il tuo risotto. Ce la fai?”
Erano passate tre settimane, e giorno dopo giorno erano aumentati i clienti. E Gustavo sembrava incredulo su come stessero cambiando le cose: Abdul era bravissimo in cucina, il suo risotto era richiestissimo, più di una persona aveva detto: “Ci sento…” e non aveva trovato le parole. Abdul, dal canto suo, non aveva svelato tutti gli ingredienti della sua ricetta. Gustavo era sicuro che ci metteva qualche diavoleria del suo paese, nel risotto. Qualche cosa che gli aveva piano piano riempito il locale. E fatto tornare il sorriso.
Al diavolo Salvatore, Abdul era la manna caduta dal cielo, la gente usciva contenta, il locale davanti era vuoto, e invece il suo era pieno di gente, anche gli impiegati degli uffici vicino erano diventati clienti, e prima non si erano mai visti…
“Abdul, te li meriti. Il doppio di quanto prendevi da cameriere. “
I soldi. I soldi sul tavolo, nella piccola stanza dove dormiva Abdul. I soldi in contanti, come non ne aveva mai visti. Tanti, tanti da mandare anche a sua madre.
Abdul guardava il mucchietto di denaro. Aveva faticato tanto in quei mesi, ma Gustavo era l’uomo più buono del mondo, gli aveva dato tutti quei soldi senza che lui chiedesse niente. Aveva qualcosa che ricordava suo padre.
Il denaro apriva le porte, faceva uscire dalla gabbia, come se uno diventasse un folletto e riuscisse a passare dalle sbarre, le sbarre dei limiti, della cella in cui viveva. Il denaro era la chiave per aprire una porta, soprattutto.
Sabato pomeriggio. Zara. Vetrine che aveva solo visto, prezzi troppo alti per lui. Ma ora, ora, per una volta poteva permetterselo. Un bel paio di pantaloni, una camicia da Zara. Quante ragazze erano nel negozio a due passi dal Duomo, tutte indaffarate a guardare, a comprare…
Si guardò allo specchio. Il suo viso un po’ scuro, magro, con la barba di pochi giorni, era davanti a lui. Gli occhi, quelli erano diversi. Avevano una luce, ora, ora che stava trovando il suo posto in quella città. Perché Gustavo aveva fatto anche un mezzo discorso, potremmo diventare anche soci, un giorno, aveva detto… Soci, un locale tutto suo, non sarebbe più stato un cameriere, un cuoco, ma avrebbe gestito quella trattoria che era sempre più piena… E del suo risotto ne aveva parlato anche un giornale, quelli che parlano dei locali e danno i voti…
Comprò anche un giubbotto. Certo, le cose di Zara erano veramente belle. E lui si vedeva proprio bene, vestito in quel modo. Non erano gli abiti del mercato, comprati a pochi euro, anche usati. Ora poteva permettersi di vestirsi in quel negozio, come tanti di Milano.
Ecco, il pensiero di Jamila lo prese. Si sarebbe mostrato a lei, così. Sarebbe andato nel negozio di parrucchiera dove lei lavorava, e le avrebbe detto tutto. Quello che era accaduto in quei pochi mesi, la sua vita che si stava trasformando. Grazie al suo risotto.
E le avrebbe detto tante altre cose, che non aveva avuto il coraggio di andare da lei prima, che non aveva avuto niente da offrirle, neanche i soldi per portarla in un ristorante… No, non se l’era sentita di fare la figura del pezzente, ma ora, ora poteva andare da lei con ben altri discorsi, la paga che era diventata così alta, il titolare che gli voleva bene, sempre gentile con lui, che forse lo avrebbe fatto socio… E se lui un domani avesse avuto quel locale, magari fra anni, lei avrebbe potuto starsene alla cassa, e sarebbe diventata anche sua, la trattoria… E poi avrebbero preso una piccola casa, magari in affitto all’inizio, e sarebbero stati solo loro due, avrebbero potuto sposarsi, avere dei bambini, magari una bambina, perché a lui le bambine piacevano tanto, e se l’immaginava già, una bambina che girava per la trattoria, che magari si sarebbe ingrandita sempre di più, piena di gente e Jamila sempre lì con lui…
I pensieri si impossessarono di lui, viaggi che lo riportavano al mare e agli odori del suo paese, e il tutto era ammantato dall’amore per lei, quell’amore che non le aveva mai rivelato, solo una volta, mesi prima, lui l’aveva sfiorata con un bacio… Ma lei si era ritratta, era una brava ragazza, forse voleva fare le cose perbene, e lui doveva presentarsi anche davanti alla sua famiglia con qualcosa, con delle intenzioni serie, con un futuro che poteva garantirle, un bel futuro…
Una sera, prima di andare alla trattoria, andò davanti al negozio di lei. Guardò l’orologio. Era ora, ormai doveva uscire. Gli veniva da ridere quasi, si era messo il giubbotto nuovo di Zara, anche i pantaloni e la camicia. Chissà se gli sarebbero uscite le parole.
Jamila uscì. Era con altre due, una aveva i capelli di un colore strano, forse blu. Si salutarono. Lui sentì le gambe pietrificate. Era bellissima. Si era girata per un attimo verso di lui, ma non l’aveva visto. Le era andato incontro invece un uomo. L’aveva abbracciata e baciata, lì, davanti al negozio. E poi avevano fatto pochi passi, ed erano saliti su una macchina, una spider rosso fuoco.
Aveva cominciato a piovere. Le gocce cadevano sulle scarpe nuove, perché anche quelle Abdul si era comprato. Passi lenti, pesanti, come se tutto si fosse allentato dentro di lui.
Una spider rossa. Quanto costava una spider rossa?
Quando entrò nella trattoria, gli sembrò di essere in un posto nuovo, come se non l’avesse mai visto. Il risotto, le prenotazioni, Gustavo che stava parlando con un signore… Tutto gli sembrò lontano, irreale.
Aveva voglia di piangere, di tornarsene al suo paese, di lasciare Milano e il freddo e la moda e si sentì ridicolo, in quei vestiti di Zara. Lui sarebbe rimasto sempre un cuoco egiziano. E Jamila aveva trovato ben altro, lei, con la sua bellezza, poteva permetterselo.
Quando era già tardi, Gustavo, che aveva notato il suo sguardo triste, così diverso dal solito, lo invitò a bersi una birra. Allora fecero un giro sui Navigli, e percorsero le strade della movida, camminando vicino all’acqua su cui si riflettevano le luci, loro due, da soli.