Tante storie magiche
Miniere
Nel soggiorno in penombra la televisione era accesa. Raggomitolata nella poltrona, Lina guardava le immagini senza seguire la trama, immersa nei suoi pensieri.
Era la vigilia di Natale, ma la ricorrenza non le comunicava nessuna gioiosa sensazione.
Proprio il giorno prima erano arrivate le lettere di licenziamento al personale della miniera. La società aveva deciso di chiudere gli ultimi pozzi. Così quella mattina c’era stata una riunione tempestosa in Municipio e lei aveva faticato a tenere l’ordine. Tutti gridavano che bisognava far qualcosa, ovvero chiedevano che lei, il Sindaco, facesse qualcosa. E lei aveva parlato con voce ferma, pacata, aveva promesso che una soluzione si sarebbe trovata, li aveva rassicurati, aveva dato loro un filo di speranza e placato gli animi, anche se dentro di sé era ben lungi dal provare quella fiducia che ostentava con tanta sicurezza. In che modo avrebbe potuto risolvere una situazione che si presentava disperata ? Non era forse una morte annunciata quella delle miniere? Ma proprio alla vigilia di Natale, che diamine! No, non se l’aspettava. Per completare la giornata erano arrivate in rapida successione le telefonate dei figli: contrattempi dell’ultima ora impedivano la partenza, l’avrebbero raggiunta appena possibile. Ed anche questa aspettativa era andata delusa. Così eccola lì, sola, davanti alla televisione, a riandare col pensiero agli avvenimenti della giornata. Il dramma di tante famiglie la sconvolgeva, ma lei non era in grado di salvare quei posti di lavoro. Non le rimaneva che rassegnare le dimissioni e andarsene. In fin dei conti che ci faceva in quei luoghi, lontana dai suoi figli, ora che aveva raggiunto la pensione e non era più utile a nessuno?
Le vennero alla mente le parole del dottor Bauer di tanto tempo prima.
“Andate via, Lina. Prendete il vostro bambino e tornate dalla vostra famiglia, nella vostra bella città. La Francia è caduta. La Germania ha invaso l’Europa. La guerra finirà presto. Qui le coltivazioni si esauriranno e le miniere dovranno chiudere. La vita di questi paesi è legata alle miniere, senza di loro sarà la fine. Che futuro avrà vostro figlio, se resterete? “ Era il primo anno di guerra. Guido era stato richiamato ed inviato in Grecia. Oltre ad uno scarno e freddo comunicato che lo dava per disperso, di lui non si avevano altre notizie, ed era appena nato il loro primo figlio
A dispetto delle previsioni del dottore la guerra era durata cinque lunghi anni e solo un anno dopo Guido era rientrato dalla prigionia, malato, smagrito, irriconoscibile, ma salvo. Faticosamente si era tornati alla normalità. I pozzi erano stati riaperti, la produzione aveva ripreso a pieno ritmo e Guido aveva rioccupato il suo posto d’ingegnere minerario. La vita ricominciava e nacque il loro secondo figlio. Ma quella stagione felice fu di breve durata.. Era come se riudisse la sirena della miniera, quel sibilo acuto, stridulo, lacerante. Un suono che, fuori orario, provocava un’ansia improvvisa e annunciava disgrazie. E quel giorno suonò per lei. Guido era sceso in galleria a controllare un’armatura, le travi avevano ceduto. Aspettavano il terzo figlio, una bambina. Intorno a lei un moto di affetto spontaneo, fatto di premure discrete e delicate attenzioni, la fece sentire meno sola e le diede la misura della commovente solidarietà della gente di miniera. Ed anche allora era rimasta.
E poi vennero i primi segnali di crisi, una crisi che andò aggravandosi fino a diventare irreversibile. Alle società private subentrarono le aziende di Stato in un vano tentativo di salvataggio. Le miniere chiudevano una dopo l’altra e i paesi si spopolavano sempre di più. Ed ora si era giunti all’ultimo capitolo, mancava solo la parola fine.
Dei leggeri colpi alla porta interruppero le sue melanconiche riflessioni. Si diresse verso l’ingresso, la porta si aprì lentamente e comparve una bimba sui dieci anni. Lina la riconobbe, era Marta, la figlia di Rosa, una delle sue tante figliocce.
Affannava: “Signora Lina venite, presto! La mamma sta male, il bambino non vuol nascere!”
“Oh tesoro, che significa?! Nascerà, nascerà, ci vuol tempo ecco tutto. Ma… non doveva andare in ospedale?”
“Si. Ma l’aspettavamo per gennaio e il babbo stasera non c’è. E’ di turno.”
Il padre era operaio in uno stabilimento chimico, ad una ventina di chilometri dal paese e gli impianti non si potevano fermare, neanche la notte di Natale. Lina non ebbe bisogno di cercare la sua borsa d’ostetrica. La teneva a portata di mano, anche se erano ormai dieci anni che aveva lasciato la professione. Senza perdere tempo salirono sulla vecchia cinquecento che, mise subito in moto e in meno d’un quarto d’ora donna e bambina erano giunte a destinazione. Nella stanza c’erano due vicine di casa ad assistere Rosa, che urlava e si agitava senza tregua. Non fu difficile per Lina, mentre indossava il camice, ritrovare tutto il suo piglio professionale per rassicurare la futura madre, dare disposizioni alle due donne ed esaminare la posizione del nascituro. Fortunatamente era tutto regolare e non si prospettava alcuna difficoltà. Non restava che attendere. Lina si muoveva con sicurezza intorno al letto, sistemava i guanciali sotto la schiena della partoriente, le asciugava il sudore, tra una contrazione e l’altra cercava di distrarla e farla sorridere con battute scherzose, alzava il tono della voce per incitarla e poi la blandiva con dolcezza. Circa un’ora dopo aveva tra le braccia un esserino sanguinolento e cianotico, che con due colpetti ben assestati emise il primo vagito.
“Una bella voce da tenore, giovanotto! Rosa è un maschio, sei stata proprio brava, faremo una bella sorpresa a tuo marito!”
Rosa le rivolse uno sguardo pieno di riconoscenza e riuscì a sorridere. Non ci volle molto alle donne per far sparire dalla stanza ogni traccia del parto e ben presto madre e figlio riposavano tranquilli nel lettone matrimoniale, tra lenzuola fresche di bucato. Lina congedò le due donne, sarebbe rimasta lei quella notte, tanto a casa non l’aspettava nessuno, ma ormai questo pensiero non le dispiaceva più di tanto, quell’imprevisto aveva allontanato ogni malinconia e aveva ritrovato il suo solito umore. Si distese sul divano, ma non riusciva a dormire e si avvicinò alla finestra. Era una notte limpida. In lontananza si scorgevano le luci dell’isoletta di fronte alla costa e i lumi tremolanti di qualche peschereccio, i raggi della luna si riflettevano sul mare che rimandava mille bagliori, facendo risaltare la massa scura dei faraglioni e il biancore delle falesie. Il suono delle campane che annunciava la messa di mezzanotte le fece tornare alla mente un Natale di tanti anni prima, cinquanta per l’esattezza, il primo lontano da casa. Era il 1934. Agli inizi di Dicembre aveva lasciato la sua città, Ferrara; per quel paesino di miniera, dove era stata nominata ostetrica condotta.. I genitori avevano cercato invano di convincerla a rinunciare a quella nomina in un luogo così lontano, di là dal mare. Ma lei era ben determinata e possedeva un carattere troppo intraprendente, per lasciarsi scoraggiare dalle loro argomentazioni. Si rivedeva infagottata in un lungo cappotto scuro, che la faceva apparire ancora più esile, i lunghi capelli ramati legati con un nastro dietro la nuca, sotto la pensilina della stazione della città più vicina, mentre si guardava intorno spaesata, chiedendosi come diavolo raggiungere la sua destinazione. Le sembrò di risentire quella voce dal forte accento gutturale: “Non sarete voi, per caso, la nuova ostetrica?”
Dall’alto di un calesse un uomo non più giovane, barba e baffi rossicci, spruzzati di bianco, alto e magro, con un cappello a tesa larga si stava rivolgendo a lei. Era il medico condotto. Caro, vecchio dottor Bauer come le era sembrato burbero e scontroso quella volta. Per buona parte del tragitto non aveva fatto che borbottare “Una ragazzina, una ragazzina hanno mandato quegli scriteriati !” finchè Lina non aveva risposto risentita
“Non sono una ragazzina :ho ventun anni, sono maggiorenne e non mi hanno mandato, avevo i titoli e la condotta mi spetta di diritto.”
“Certo, certo. Ma sembrate più giovane della vostra età e qui il lavoro sarà molto faticoso, vi stancherete presto.” Lina non voleva entrare in polemica con quell’uomo così scorbutico e si concentrò sul paesaggio che si stendeva davanti ai suoi occhi. Il calesse percorreva una strada che si snodava a mezza costa tra il monte e il mare. Alte falesie precipitavano in un mare cristallino, che cambiava continuamente colore, dal verde chiaro al blu cobalto, tanto limpido che dall’alto si potevano distinguere i fondali rocciosi coperti dalla vegetazione marina. Di tanto in tanto delle profonde insenature tagliavano la costa e si allargavano formando calette dalla sabbia bianchissima. Ricordava il commento del dottore di fronte alle sue esclamazioni di meraviglia, “ Certo è un panorama unico al mondo. Anche se tanta bellezza non serve ai suoi abitanti. Al panorama ci si fa l’abitudine, alla fame non ci si abitua mai.”
Di fronte a lei si stagliava un’alta rupe calcarea, a picco sul mare, proprio dirimpetto ad un grosso scoglio a forma di pan di zucchero. Nello stretto di mare tra la rupe e il faraglione era ancorata una nave. Un lungo condotto, proveniente dall’alto, da un varco che si apriva come una ferita nella roccia, stava scaricando del minerale nelle stive.
Il dottore seguì il suo sguardo: “Può sembrarle strano, ma è un porto: Porto Flavia. E’ un’opera all’avanguardia, inaugurata pochi anni fa, di cui siamo molto orgogliosi. Vengono tecnici da tutta Europa per ammirarla. Era l’unico punto in cui i fondali permettessero l’attracco delle navi, dove la costa è molto alta. Così per il trasporto del minerale è stata scavata una galleria, che sbuca nel mezzo della parete con quell’apertura, dalla quale fuoriesce un nastro trasportatore.”
Dopo una curva, il monte si apriva in una vallata che degradava verso il mare e le apparve il paese, un insieme di casette bianche che seguendo le curve di livello, arrivavano sino alla strada, dall’alto un ruscello attraversava. il pendio per gettarsi in mare. Lina si era rincuorata a quella vista, aveva immaginato di trovare uno dei tanti paesi a bocca di miniera, dagli edifici scuri, il cielo coperto dal fumo delle fonderie e dalla polvere degli scavi, invece tutto le appariva ridente in quella tiepida giornata di dicembre. Anche se gli inizi non erano stati certo facili. Passavano i giorni e nessuno si rivolgeva a lei, sentiva intorno a se una freddezza, una diffidenza di cui non riusciva a spiegarsi il motivo e non trovava il modo per vincerla. Era stato il vecchio dottore a venirle in aiuto.
“Vi considerano un’estranea, non conoscete il dialetto, venite da una città lontana. Sono abituate alle rozze levatrici di campagna e voi apparite troppo raffinata per loro. Venite nel mio ambulatorio, mi darete una mano e impareranno a conoscervi. Ricordate, sono gente sospettosa, restii a concedere subito la loro amicizia, ma una volta ottenuta la loro fiducia, questa è per sempre.”
Nell’ambulatorio Lina aveva potuto mettere in pratica tutto ciò che l’era stato insegnato, aveva imparato a suturare ferite e fare endovene, medicare e fasciare con le sue mani leggere come ali di farfalla e ben presto rappresentò un aiuto prezioso per il dottore. Sempre sorridente, cominciò a vincere la diffidenza dei pazienti e li conquistò con la sua espansività tutta emiliana e quel suo accento pieno, rotondo, con la c che scivolava in una s. Pian piano si accorse che quel muro di sospetto stava cedendo, finché proprio la vigilia di Natale ricevette la prima chiamata. Anche allora un ragazzino di circa dieci anni, magro scalzo, con un paio di pantaloni sdruciti e un maglione pieno di buchi, aveva bussato alla sua porta .Si esprimeva solo in dialetto, ma Lina aveva capito al volo che doveva seguirlo. Era notte fonda, senza luna, e Lina dovette prendere una torcia con sé per affrontare la strada sterrata che saliva lungo il costone. Il buio e il silenzio non erano certo rassicuranti, anche se la sua maggiore preoccupazione era quello di arrivare il più presto possibile. Ed ecco che dopo la prima curva le si presentò uno spettacolo, che non avrebbe più dimenticato: ai bordi della strada su su sino in cima, brillavano le lampade a carburo dei minatori che le facevano luce. Quegli uomini rudi che lei incrociava quando tornavano dal lavoro, i volti scavati, le facce scure di polvere nera, dove biancheggiavano gli occhi, lo sguardo vuoto, il passo strascicato negli scarponi sformati, erano stati capaci di quel gesto di sollecitudine.
Persa dietro ai ricordi, Lina seguiva soprappensiero la luce del faro che, ad intervalli regolari, rischiarava ora questo, ora quell’angolo di visuale. In quel momento si posò su dei grandi archi in pietra, che avevano resistito agli insulti del tempo, e s’innalzavano sui resti dell’antica laveria. Le sembrò di rivedere la lunga fila delle cernitrici, alcune poco più che bambine, scalze, con uno scialle per ripararsi dal freddo. Ripensò a loro, in quei cameroni esposti alle correnti, occupate a dividere il minerale ricco da quello sterile e trasportarlo poi in canestri più pesanti di loro. La polvere dei minerali penetrava nei polmoni, i bordi taglienti del metallo piagavano le mani, mentre il freddo vento di maestrale s’insinuava fra quegli archi.
In alto, ancora miracolosamente appesi a un cavo dondolavano i carrelli della teleferica, da tempo inutilizzata. Il lume si spostò sulla spiaggia e proiettò il cono di luce su vecchi fabbricati in rovina, a fianco ai quali, semicoperti dalla sabbia, giacevano rovesciati e arrugginiti i vagoncini della ferrovia che collegava la fonderia al porto. Quel porto scavato nella roccia, un gioiello d’ingegneria industriale, che, proprio come un gioiello, era stato dedicato a una donna. Un tempo nel braccio di mare sottostante era un via vai incessante di bastimenti. Quanta animazione lì intorno! Ma ora cos’era rimasto? Muri cadenti, vetri infranti, cumuli di detriti. Col tempo sabbia e terriccio avrebbero ricoperto ciò che restava di quel mondo.
E mentre i suoi occhi seguivano quel fascio luminoso, che scompariva e riappariva in un gioco di luci ed ombre, si delineò nella sua mente un disegno che andò assumendo contorni sempre più nitidi. Ma certo! Lei non avrebbe permesso che l’opera e il sacrificio di centinaia e centinaia di uomini e donne andassero perduti, lo doveva a Guido, al dottor Baire, ai minatori, alle cernitrici. Lo doveva a quel bambino appena nato, la vita doveva continuare. Avrebbe salvato quel patrimonio di memorie e lo avrebbe reso produttivo. E come in un sogno vide Porto Flavia aprirsi ai visitatori come un balcone sospeso sul mare, con le sue gallerie percorribili con i vagoncini, la sede della direzione, la bella palazzina liberty con l’altana a colonnine, diventare un centro di congressi, la laveria ospitare una mostra permanente dell’epopea delle miniere, l’ampio edificio della colonia estiva trasformato in un albergo in riva al mare, la teleferica convertita in seggiovia… Avrebbe dato inizio ad una grandiosa opera di restauro e ricostruzione, ovunque sarebbero sorti nuovi cantieri e il lavoro non sarebbe mancato. Il resto della sua vita sarebbe stato dedicato alla realizzazione di quel sogno e non poteva permettersi di perdere tempo. Avrebbe riunito i sindaci dei paesi vicini, creato un consorzio, bussato alla porta dei politici regionali, sarebbe andata a Roma, niente l’avrebbe fermata.
Si stava facendo giorno e il pianto del bimbo la riportò alla realtà. Adesso c’erano incombenze più impellenti da sbrigare: la puerpera e il neonato richiedevano le sue attenzioni. Mentre si occupava di loro sentì aprirsi la porta d’ingresso: il neo padre rientrava. Lasciò la famigliola alla propria intimità e si avviò verso casa. Sulla via del ritorno era pervasa da un piacevole senso di euforia.
Davanti a lei contro il cielo terso risaltava la sagoma inconfondibile del Pan di zucchero che guardava Porto Flavia , il simbolo della rinascita.
Franca Seta